Rilanciare l’occupazione licenziando tutti. Non è una barzelletta per dementi, ma il programma di questo governo. Difficile non cogliere la vera sostanza del jobs act (facilitare i licenziamenti, non le assunzioni) quando si assiste al litigio in diretta tra ministri, sottosegretari, consulenti, aficionados sulla “interpretazione autentica” da dare al testo uscito dal consiglio dei ministri e pubblicato sul sito del governo (e anche su Contropiano).
Ha aperto le danze Pietro Ichino, giuslavorista passato dalla Cgil alla corte di Mario Monti, che ha protestato perché – a suo dire – la possibilità di licenziare gli statali esattamente come i lavoratori dipendenti del settore privato era compresa nel testo approvato dal Cdm il 24 dicembre: «Quando il governo ha deciso di non escludere dal campo di applicazione i nuovi assunti nel pubblico impiego erano presenti anche Poletti e Madia». Ovvero i due ministri che avevano immediatamente “precisato” che invece l’esclusione degli statali dal campo di applicabilità dell’antica.nuova disciplina sui licenziamenti.
Polemiche governative a parte – un’oscena gara a chi è più crudele nei confronti dei lavoratori dipendenti di ogni ordine e grado – ci sembra evidente che nessuno si attende dal jobs act una miracolosa ripresa dell’attività produttiva e quindi anche dell’occupazione. L’unico obiettivo – ormai esplicito – è quello di dar mano libera ai licenziamenti, senza più l’impiccio del ricorso al giudice del lavoro che poteva deciderela “reintegra”.
La licenziabilità immediata e generalizzata non possiede del resto alcun senso economico, se non quello di seppellire la conflittualità sindacale su norme, salari, ritmi e sicureza nel lavoro, con la minaccia esplicita dell’espulsione dal luogo di lavoro.
Ma per quale motivo gli statali dovrebbero essere esclusi da questa tagliola? Il ragionamento di Ichino sarebbe logico se fosse supportato da una qualche consapevolezza giuridica (anche negli specialisti del settore, insomma, alcune nozioni possono andare smarrite sotto l’ossessione “licenzista”). Sono le stesse furbizie criminali del jobs act a portare a questo risultato. Per rendere facile il licenziamento, infatti, viene allargato all’infinito il campo dei “motivi economici e di ristrutturazione”. E va da sé che lo Stato non può accampare “motivi economici” per licenziare il personale se non dopo aver dichiarato fallimento.
L’altro elemento “chiarificatore” è arrivato dallo stesso Renzi, che ha provato a tirarsi fuori dal litigio rimettendo la questione alla discussione in Parlamento. Per uno che usa la questione di fiducia un giorno sì e l’altro pure non c’è male, come battuta… Sembra chiaro, quindi che Renzi intenda far sua la posizione di Ichino, contando sull’entusiatico apporto di berlusconiani nuovi e vecchi, residui montiani e paccottiglia varia.
Mentre in giro ancora vanno cianciando quelli che, a forza di politica “di riduzione del danno”, hanno costantemente contribuito ad abbassare le tutele dei lavoratori. Ora che non ci sono più, insistono ancora…
Nel pomeriggio Renzi ha smentito confermando, nel suo stile gesuitico e strafottente: “in Consiglio dei ministri ho proposto io di togliere la norma” sui dipendenti pubblici “perché non aveva senso inserirla in un provvedimento che parla di altro. Il Jobs act non si occupa di disciplinare i rapporti del pubblico impiego. Le regole del lavoro pubblico le riprenderemo nel ddl Madia. La mia idea è che chi sbaglia nel Pubblico paghi. Per chi non lavora bene perché non è messo in condizione di farlo, la responsabilità va attribuita ai dirigenti. Ma per i cosiddetti fannulloni va messa la condizione di mandarli a casa. Ma questo argomento prenderà corpo a febbraio o marzo”.
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