La guerra arriva fino nel cuore dell’impero: quanto è successo a Parigi è esattamente questo, che ci piaccia o meno. Gli spot che da mesi invadono le tv, entrando nei nostri salotti e nelle nostre cucine, che ci raccontano che con la nascita del Mercato Comune Europeo prima e l’Unione Europea poi ormai da più di 60 anni non ci sono più guerre in Europa, oltre a essere falsi probabilmente non sono più neanche rassicuranti.
I 12 morti nella redazione del giornale satirico Charlie Hebdo di mercoledì, l’uccisione di ieri dei presunti attentatori e degli ostaggi, sono vittime di guerra. Non sappiamo quanto consapevoli ma questo sono, e non ascrivibili a superficiali o mistificatorie spiegazioni sulla follia o il terrorismo.
Sono chiari fatti di guerra, che ogni parte in campo conduce con i mezzi che ha a disposizione, con le strategie militari che decide di attuare o che le condizioni oggettive e i rapporti di forza gli permettono.
Le dinamiche, gli autori dell’attacco, il tipo di vittime, sono elementi che si prestano facilmente a interpretazioni nel migliore dei casi fuorvianti, se non false e tendenziose, rievocando i temi del fanatismo, della libertà di stampa o complessivamente intesa, della difesa della democrazia, dello scontro di civiltà, perdendo di vista, o facendolo volutamente perdere, il legame tra i fatti e le reali situazioni economiche, politiche, militari internazionali.
Non rimaniamo indifferenti e cinici, emotivamente e umanamente, di fronte a morti e feriti, tanto più quando, e qui il nostro coinvolgimento diventa anche politico, si tratta di uomini e donne che sono vittime di una guerra, che indossino l’una o l’altra divisa o siano dei civili e soprattutto se sono stati protagonisti di una stagione di battaglie di libertà e democratiche che è stata anche nostra. Ma questo non può condizionarci nell’analisi che deve necessariamente restare razionale e capace, per i comunisti, di un punto di vista di classe, internazionalista e antimperialista.
I fatti di Parigi rappresentano un chiaro attacco alla Francia che, più di ogni altra, per mezzi e grado di evoluzione del proprio esercito, è di fatto il braccio militare, “l’esercito”, dell’Unione Europea. Un polo imperialista europeo che negli ultimi anni, per non parlare dei decenni scorsi, ha innescato e sostenuto guerre lungo i propri confini geografici e politici come strumento della competizione globale, alcune volte in alleanza, e altre no, con uno dei suoi poli competitori: quello statunitense. Una Francia che spesso ha usato lo strumento militare, ancor prima che quello puramente economico, anche nella “competizione interna”, per definire gli assetti e le gerarchie nell’Unione Europea stessa.
Questi due fattori, unitamente o separatamente, si sono espressi con l’invasione della Libia dove la Francia ha svolto un ruolo diretto e di rilievo anche nell’omicidio di Gheddafi e che ha favorito l’emergere prepotente di un islamismo radicale che oggi è entrato nell’orbita dell’Isis. Ma anche più di recente in Siria, dove a lungo ha armato i cosiddetti ribelli che combattono contro le autorità di Damasco, fornendo loro, oltre alle armi, anche soldi, consiglieri e coperture diplomatiche. Per poi, per sua convenienza, abbandonare la complicità e l’appoggio a quelle milizie, che per lo più oggi ingrossano le file del Califfato e compiono ogni giorno in Libano, Siria e Iraq stragi di vittime che per i nostri giornali non hanno neanche diritto alla menzione. Una Francia che è stata in prima fila nella “destabilizzazione creativa” del Medio Oriente e dell’Africa, basti ricordare anche il suo ruolo di primo piano, solo per restare agli ultimi anni, in almeno una decina di paesi africani.
La guerra, come dicevamo, è alle porte dell’Unione Europea ormai da alcuni anni, e non casualmente proprio con l’accentuarsi della crisi di sovrapproduzione di capitale. Libia, Siria, Iraq, Ucraina, alcune ex colonie francesi sono gli scenari di questo scontro globale anche se si tenta in tutti di modi di rappresentarle ognuna come una crisi a se stante, dando loro delle motivazioni separate, specifiche, in una narrazione fuorviante che tenta di essere rassicurante.
Le guerre alle quali stiamo assistendo sono tutt’altro, sono l’espressione della competizione globale tra imperialismi in competizione, all’interno della quale l’Unione Europea sta giocando la sua partita.
L’imperialismo non è puramente la manifestazione di una politica aggressiva ma uno specifico stadio raggiunto, la fase suprema del capitalismo, per dirla in termini leniniani, la necessità di esportazione dei propri capitali anche attraverso l’uso della forza.
Per l’Unione Europea la propria periferia diventa quindi lo spazio vitale per questa necessità e la guerra il mezzo per conquistarlo. Gli interventi militari in Africa, in Libia e in Medio Oriente hanno esattamente questo significato, con proprio la Francia, come braccio armato, che conduce le danze. Anche il conflitto in Ucraina ha rappresentato questa tendenza, anche se non si è avuta l’accortezza di valutare una possibile reazione da parte di un partner strategico come la Russia e i suoi interessi in quell’area.
Questa situazione ha delle fondamentali caratteristiche di diversità rispetto al passato, anche quello recente, e ci riferiamo in particolare agli anni ’90. Infatti in quel decennio, dopo il dissolvimento dell’URSS, gli USA svolgevano un ruolo, politico e militare, egemone. Questa egemonia ora è stata persa e i competitori sono molti e disseminati in vari luoghi del Pianeta.
Oltre agli imperialismi di USA, UE e Giappone in campo ci sono anche le aspirazioni egemoniche, con le quali questi dovranno fare i conti, dei Paesi periferici emergenti e dei BRICS, ma anche quelle, per altri versi, del “polo” islamico.
Se pur ancora con i suoi grandi limiti come la frammentazione, la mancanza di rappresentanza e di peso nelle Istituzioni mondiali o in vertici come G8 o G20, non va dimenticato che i paesi arabi hanno una forte potenzialità militare, svolgono un ruolo primario nella finanza internazionale, posseggono la maggior parte dei giacimenti di petrolio.
Soprattutto quest’ultimo elemento è contemporaneamente sia il loro maggior punto di forza ma anche di debolezza.
Le risorse petrolifere sono in via di esaurimento e già si sta registrando il “picco” estrattivo, cioè quel punto dove, date le difficoltà di estrazione, l’impiego energetico per estrarre petrolio è maggiore di quello ricavato. Una tendenza nella quale si inserisce l’azione di alcuni dei paesi in competizione in grado, attraverso operazioni finanziarie o l’aumento della produzione, di far variare anche notevolmente e in poco tempo il prezzo del greggio, come sta avvenendo con il crollo da quasi 150 a 50 dollari al barile nei soli ultimi tre mesi.
La crescente competizione convince le borghesie di questo “polo” ad accelerare la costituzione di una potenza mondiale, di una “grande potenza islamica” e ad assumere la leadership dell’intera area asiatico-mediorientale-nordafricana e non solo: il “Califfato”, lo “Stato Islamico”.
La necessità dunque di inserirsi nella competizione per l’egemonia mondiale, anche attraverso atti come fu quello dell’11 settembre alle Torri Gemelle, quello di Madrid e Londra, ma anche quello, probabilmente, di Parigi: muovere le proprie pedine anche contro gli ex alleati, portare la guerra dentro casa dell’avversario o dell’ex “amico”, con i modi e gli strumenti di cui si dispone.
Una guerra che passa anche attraverso gli aspetti culturali e “religiosi”, terreno sul quale questo tentativo egemonico può trovare uno straordinario elemento di adesione e identificazione per larghe masse di umanità soggette in Medio Oriente, in Africa e in Asia a decenni di guerre, occupazioni, embarghi, aggressioni di ogni tipo. Che non trascura gli aspetti comunicativi e tecnologici, frutto di una modernità del mondo arabo-islamico, in particolare delle sue borghesie spesso educate nelle università occidentali, in grado di sfidare l’imperialismo occidentale al suo livello più alto.
Questo quadro ci riporta pienamente alla nostra analisi sugli “apprendisti stregoni”, che si rivela assolutamente fondata.
Non perché vogliamo esercitare un’opera di autocompiacimento e come sempre siamo aperti al dibattito, ma sicuramente di fronte ad avvenimenti come quelli di Parigi rifuggiamo da scorciatoie comode o derive nazionaliste e richiami all’unità nazionale, come parte della sinistra in Francia, ma anche in Italia, sta irresponsabilmente facendo. Contemporaneamente contrastiamo con forza ogni tentativo di strumentalizzazione da parte delle forze politiche razziste, xenofobe e della destra, e gli atti a queste funzionali come l’introduzione di leggi speciali che il Ministro Alfano sta già proponendo.
Ma per fare questo è necessario avere chiaro il contesto dentro il quale i fatti di Parigi si inseriscono, altrimenti si rischia, per altri versi, di rimanere ingabbiati in una retorica che assimila alla libertà, alla democrazia e alla tolleranza politica e religiosa un occidente che non corrisponde alla realtà, contrapposto ad un mondo islamico che si vorrebbe al contrario fanatico, estremista, violento e quindi pericoloso tout court. Una contrapposizione tra due “ideali” posticci che non fa che alimentare la logica dello scontro di civiltà, obiettivo tanto delle classi dirigenti arabe nella forma islamista quanto di quelle occidentali.
Come comunisti, ma ciò dovrebbe valere per chiunque oggi si batte per il cambiamento radicale della società, il nostro vero nemico sono le nostre classi dominanti, gli “apprendisti stregoni” appunto, che con l’effetto delle loro azioni diventano concretamente il nemico dell’umanità.
Rete dei Comunisti – www.retedeicomunisti.org
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa