Bisogna ringraziare l’Ansa, che forse senza volerlo ci ha dato una notizia: in Europa fino a un mese fa non c’erano “governi di sinistra”. Con buona pace dei fan di Renzi (Vendola compreso, visto che continua a farci accordi in Parlamento e per le elezioni regionali), gli imbonitori di Repubblica e Tg3…
“E siccome nessuno pensa a dare carta bianca all’unico Governo di sinistra europeo, l’intesa raggiunta non lascia molto spazio alla Grecia: sarà monitorata passo dopo passo in tutte le decisioni che prende, e non riceverà nemmeno un euro se le misure che prenderà non saranno approvate dall’Eurogruppo”.
Il redattore Ansa sta descrivendo il lavoro improbo del governo Tsipras, che domani dovrà presentare la sua lista di riforme tenendo conto però della cornice (gabbia, più precisamente) dell’equilibrio dei conti preteso dalla “grande Troika” (Bce, Ue, Fmi). In pratica, dovrà far quadrare la propria volontà di ridare un po’ di respiro alla popolazione e all’economia usando una massa di risorse che più micragnosa non potrebbe essere. Quel che produrrà, in un senso o in un atro, sarà anche la misura del “riformismo possibile” nell’Unione Europea attuale.
Una novità comunque rispetto agli altri governi del continente, che prendono e “riforme strutturali” consigliate (è un eufemismo, sia chiaro) e le applicano senza fiatare. La novità è riconosciuta da tutti, a denti stretti (persino da Repubblica, è tutto dire); ma naturalmente si spera che duri un attimo.
Sì, perché altri governi servi stanno per affrontare il giudizio degli elettori e la sola presenza di un esecutivo che prova almeno a “contrattare” può risultare fatale. Non è un caso che nel vertice europeo i più duri con Varoufakis e Tsipra siano stati – tedeschi a parte, che non fa più notizia – gli spagnoli Rajoy e De Guindos, che a un certo punto non volevano firmare il testo finale. Lo si può capire, Rajoy guarda i sondaggi di casa sua e sente che la distanza con Podemos è già grandissima oggi; se la Grecia di Syriza resiste fino al voto spagnolo per il vecchio franchista corrotto non c’è scampo…
In termini diversi, la questione al centro è ormai quella della sovranità. Non quella “nazionale” cara ai fascisti, ma quella popolare, che dovrebbe invece stare a cuore di chi si dice “di sinistra”. E’ curioso come molti attivisti “comunisti” siano rimasti affascinati, anni fa, dalla retorica capitalista antisovranista. Come se non potessero proprio arrivare a capire che in ballo non c’era davvero “la nazione”, ma il diritto di una popolazione di scegliersi il modo di vivere. E di cambiare, se quello vecchio non gli piace più. Un diktat travestito da “europeismo” (e condito con cazzate immonde, come “la pace in Europa dal ’45 ad oggi”, quasi che Jugoslavia e Ucraina fossero in un altro emisfero), che ha convinto in realtà chi voleva confondere “la politica” con un seggio da consigliere, senza più alcuna voglia di rompere le scatole ai manovratori.
Se bisognasse dar retta a questi social-confusi, bisognerebbe oggi dire che il governo Syriza è “sovranista”…
E invece, come è costretto a far notare anche Andrea Bastasin de IlSole24Ore,
“La sovranità democratica nazionale non è la vittima del negoziato tra Atene e Bruxelles. La dura alternativa imposta al governo greco – e in futuro potenzialmente ad altri paesi – tra uscire dall’euro o tradire le promesse elettorali, ha solo reso espliciti i limiti della sovranità di un paese ad alto debito“.
Chiaro? Se sei indebitato, non hai sovranità; se sei in creditore – tedesco, of course – sì.
In molti casi durante la crisi, le democrazie nazionali hanno dovuto fare i conti con le compatibilità europee: referendum (in Irlanda e in Grecia), elezioni (in Spagna e in Italia), sentenze delle corti costituzionali (in Germania e in Portogallo) sono stati oggetto di un tiro alla fune con Bruxelles. L’Italia lo sa meglio di altri: nell’ottobre 2011 arrivarono a Roma una ventina di tecnici della Commissione europea e della Bce. Al successivo vertice di Cannes, il governo accettò l’invio degli esperti del Fondo monetario. Anche noi, come oggi i greci, abbiamo taciuto il nome della “Troika”.
Di questo c’eravamo sicuramente accorti il tempo reale, scrivendo di “invasione” all’atto di nascita del governo Monti (quando gli stessi imbecilli, semplici “antiberlusconiani”, non certamente “di sInistra”, andavano a festeggiare sotto il Quirinale). Ma accettiamo volentieri la tardiva confessione del giornale di Confindustria.
Il problema è che persino le “politiche di austerità” – se si accetta di restare entro quella gabbia logica e operativa – sono comunque “flessibili” abbastanza da consentire a un governo di scegliere una soluzione o l’altra per raggiungere lo stesso obiettivo.
La fine della sovranità è un alibi: nei paesi dell’euro, il 50% del Pil resta intermediato dagli stati; i divari nei livelli di tassazione sono molto ampi. Ci sono i margini fiscali per realizzare politiche nazionali che assecondino le preferenze dei cittadini. Il vero discrimine è tra politiche – nazionali ed europee – favorevoli alla crescita e politiche, in tal senso, inefficienti a fronte di debiti eccessivi.
Traduciamo: è vero, la Troika preferisce e consiglia “riforme strutturali” favorevoli al capitale finanziario (debito da ripagare) e imprese multinazionali (compressione di salari e diritti dei lavoratori dipendenti). Ma i governi potrebbe, in qualche misura, scegliere tra opzioni diverse a parità di conti. Se non lo fanno – tutti i governi d’Europa, meno uno, finora – è perché sono complici “di classe”. Renzi per primo, per quanto ci riguarda direttamente.
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