Un universo in un solo tweet. E’ difficile trovare un concentrato così illuminante sulla “cultura” che pervade le forze di polizia di questo paese – tutte le polizie, nessuna esclusa – dall’ultima recluta al capo assoluto.
Bisogna dunque ammettere che Fabio Tortosa, l’agente che ha rivendicato con quelle parole “l’opera” compiuta alla Diaz, è un vero talento della comunicazione. Peccato che quel che c’è da comunicare sia orrore puro. E forse c’è un legame stretto tra la pochezza della “cultura” sottostante e la sinteticità del messaggio.
Il tentativo di limitare le conseguenze . affidando al sindacatino Consap il compito di diffondere l’autodifesa – è assolutamente in linea. «Le mie parole su Facebook sono state travisate», esattamente come si vede fare a tutti i politici colti in flagrante per una battuta infame o un’intercettazione imbarazzante.
Così come lo è la chiamata di correo per tutta la struttura gerarchica della polizia e la classe politica – tutti, nessuno escluso – che ha governato il paese dal dopoguerra ad oggi: «il VII nucleo a Genova nell’irruzione alla scuola Diaz ha rispettato tutte le norme, le leggi e le prassi. Quella dell’irruzione alla scuola Diaz rimarrà una pagina nera per questo Paese ma chi c’era sa che è venuta fuori solo una parte della verità. Crediamo che questa voglia di verità debba albergare anche nelle alte sfere, non solo in me, nei miei colleghi che erano con me e nelle vittime, alle quali va tutta la mia solidarietà».
C’è infatti la rivendicazione della legalità della tortura in queso paese (“l’irruzione alla scuola Diaz ha rispettato tutte le norme, le leggi e le prassi”), praticata nella piena consapevolezza che la struttura gerarchica e la politica difenderanno gli uomini eventualmente denunciati per un “eccesso di rispetto di norme, leggi e prassi”.
Si potrebbe obiettare che non esiste nessuna legge che ammetta la tortura, così come manca quella che la definisce reato. Ma quasi in nessun luogo e tempo della storia recente c’è una legislazione positiva della tortura. Dovunque è semmai prassi comune, come rivendica Tortosa, affidata alla fantasia creatrice dei singoli o alla codificazione specialistica di gruppi professionali creati ad hoc. Una legalità di fatto, non di diritto, ma legalità. L’esercito israeliano, per esempio, qualifica pudicamente i medici inseriti nelle squadre di torturatori come addetti alla fitness for interrogation.
Non male neanche l’accenno alla “verità che non è venuta fuori”, che strizza l’occhio ai dietrologi che campano – economicamente parlando – sulla creazione di misteri. Sorvoliamo sulla “solidarietà alle vittime”, consigliata probabilmente dall’avvocato o dal sindacato, perché il resto del post Facebook di Tortosa va al di là di ogni commento.
«Quello che volevamo era contrapporci con forza, con giovane vigoria, con entusiasmo cameratesco a chi aveva, impunemente, dichiarato guerra all’Italia, il mio paese, un paese che mi ha tradito ma che non tradirò». Non serve essere dei giuristi professionisti per vedere che in questo poliziotto non esiste alcuna idea di far parte di un corpo dello Stato, vincolato dalla legge nell’esercizio di una funzione “terza” rispetto al conflitto sociale e politico. Il signor Tortosa dice apertamente di sentirsi “parte” del conflitto politico, apertamente contrapposto a quanti esercitavano il diritto di manifestare e – nel momento in cui stavano dormendo all’interno della Diaz – neanche imputabili di aver fatto alcunché di illegale. Per lui i manifestanti sono il nemico, che lui e i suoi colleghi si prendono volontariamente il compito di punire, realizzando quell’obiettivo che “i capi” e “la politica” pretendono ma senza poterlo ammettere, per motivi che al poliziotto semplice sfuggono.
Ancor peggio andrà quando la Corte di giustizia europea si occuperà della tortura nella caserma di Bolzaneto, perché lì i manifestanti erano tecnicamente in stato di fermo, quindi affidati “in custodia” agli agenti di polizia penitenziaria. A Bolzaneto, insomma, la tortura sarebbe contestabile persino secondo il pessimo disegno di legge in (frettolosa) discussione in Parlamento, resuscitato improvvisamente dopo la condanna europea.
Ma come è possibile che le polizie italiane siano così fortemente imprintate dall’ideologia fascista? Non è difficile capirlo. Basta ricordare la continuità che si volle stabilire, nel dopoguerra, tra l’apparato statale creato sotto il fascismo e il “nuovo” apparato statale che avrebbe dovuto incorporare, metabolizzare e difendere la Repubblica nata dalla resistenza. Una continuità per alcuni versi obbligata – ogni rivoluzione o liberazione nazionale deve evitare di smarrire competenze costruibili solo in periodi medio-lunghi – ma perversa se riguarda anche gli organi repressivi.
Non c’è nulla di strano, stiamo dicendo, nel mantenere al proprio posto ambasciatori o tecnici dell’agricoltura, esperti di pianificazione industriale o delle tecnolgie più diverse (anche Lenin e i bolscevichi fecero lo stesso). Altro è prendere il capo dei servizi segreti interni fascisti – Guido Leto, inventore e costruttore dell’Ovra – e farlo diventare capo delle scuole di polizia. I “programmi di studio”, fatalmente, ne hanno risentito molto…
Tutto nasce di lì, tutto peggiora col passare del tempo, con le migliaia di casi di “tortura spontanea” nelle caserme e nelle questure o nelle prigioni, sempre coperte dai superiori, sempre benevolmente tollerate da una magistratura non innocente, sempre condannate solo a parole da una classe politica a sua volta sempre più transitoria, ignorante, volgare.
Il signor Tortosa forse ignora tutta la complessità del mondo che ha sinteticamente rappresentato nel suo “commentino”, ma sa perfettamente che il suo modo di pensare è quello che gli hanno insegnato fin dal giorno dell’arruolamento. Una cultura da “mondo di mezzo”, incaricato di spezzare le gambe al “mondo di sotto” per conto del “mondo di sopra”. E che pretende, all’occorrenza, impunità certa. Come è sempre stato. Il suo errore? Scrivere pubblicamente, su un social network, quello che i suoi capi condividono in pieno (basta guardare gli autori dei like) ma sanno di non poter dire in pubblico.
Un vero problema, per una Unione Europea che vorrebbe passare per tempio dei “diritti umani”.
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