A Confindustria cominciano a pensare di aver sbagliato ancora una volta cavallo. Una classe imprenditoriale intelligente si chiederebbe come mai, per la centesima volta negli ultimi 35 anni, si rtrovano a dover criticare prima, e buttare giù subito dopo, un ceto politico (pochi nomi, quelli principali) che avevano promosso con tanto entusiasmo. Ma dubitiano che una simile domanda possa farsi largo tra i “prenditori” italiani, capitalisti senza capitali, “bollettari” su concessione pubblica (es: Autostrade) o “costruttori su commessa pubblica altrimenti vado in crisi”.
Fatto sta che Matteo Renzi comincia a sembrare quel che è: un attore nel ruolo di premier, preoccupato di tirare avanti il più possibile il serial che lo vede protagonista, cacciaballe senza vergogna disposto a vendere chiunque pur di sopravvivere.
Disegno politico zero, stravolgimento (applaudito) della Costituzione, una legge elettorale per evitare che si possa avvicinare al Parlamento un qualsiasi soggetto non controllabile. E va benissmo, ai confindustriali. Ma di un disegno vero, di quelli che mette le aziende in condizione di guardare ai prossimi dieci anni, niente.
Così il giornale degli industriali spara a zero sul “tesoretto” e dintorni. Quel misero miliardo e sei che viene agitato come un straccio davanti al toro (gli elettori) che tra poco più di un mese andranno alle urne per cambiare un po’ di consigli regionali molto importanti (Veneto, Puglia, Campania, Liguria, Toscana, Marche e Umbria). Fin troppo evidente che Renzi punta fare il bis delle europee 2014. Allora promettendo gli “80 euro”, ora con il “tesoretto” o Bonus che dir si voglia.
Sul punto gli industriali agitano una ragione di classe evidente: ai poveri non va dato nulla, a prescindere, e in specifico perché i conti non lo permettono. In ogni caso, ed è il motivo principale, quel miliardo e mezzo non c’è. Come dicono tutti quelli che un po’ di praticaccia con le leggi di stabilità se la sono ormai fatta (da Brunetta ai Cinque Stelle), quei soldi sono un miraggio effetto di “deficit previsionale basato su stime dell’esecutivo”.
Pensavano di avere un premier ed hanno soltanto un chiacchierone che pensa a se stesso e alla propria popolarità transitoria. E il terrore è che finisca come per gli “80 euro”, che non sono serviti a nulla sul piano del rilancio dei consumi, ma hanno pesato comunque per 10 miliardi sui conti dello Stato. In questione non è “per che cosa spenderli” – il tipo di discussione che piace tanto a questo governo – dividendosi tra chi li darebbe agli esodati, chi alla scuola, chi agli incapienti e via fantasticando. Se quei fondi non esistono non c’è niente da discutere. E Renzi la faccia finita.
I conti in tasca, per gli specialisti di Confindustria, si fanno rapidamente. Il governo deve trovare 16 miliardi, tagliando dalla spesa pubblica, per evitare che scattino le “clausole di salvaguardia”, tra cui l’aumento dell’Iva (misura tradizionalmente recessiva e deattiva; il contrario di quel che serve). Ma sul fronte del taglio della spesa finora non è riuscito a fare granché. Intendiamoci: certo, ha congelato gli stipendi pubblici fino al 2021, ha ridotto le opere infrastrutturali per assoluta mancanza di fondi, ha rimesso allo studio una spending review da paura… Ma il saldo finale non è affatto migliorato. Anzi.
L’entente cordiale cool padronato si è rotto sulla penosa questione della “decontribuzione” per le imprese che assumono con il nuovo “contratto a tutele crescenti”. Non riuscendo a trovare le coperture finanziarie (una decontribuzione significa meno soldi in entrata, quindi vanno reperiti altrettanti fondi sotto forma di tagli alla spesa o aumento delle tasse), il governo aveva infilato – di fronte ai rilievi della Ragioneria dello Stato – … un aumento dei contributi alle imprese per finanziare la riduzione dei contributi alle imprese. Neanche sul lungomare di Napoli i giocatori di tre carte osano più fare numeri così sfacciati.
Il troppo stroppia e il dubbio si è fatto perciò critica feroce, irridente, schiacciante. Il Sole24Ore che titola “Se il tesoretto è un’arma di distrazione di massa” è qualcosa di più di un preavviso di sfratto. È un dire: “pargolo, lì ti ci abbiamo messo noi (non eri nemmeno parlamentare…), smettila di fare il piglia-in-giro con le cose serie; se ti servono i voti, cercateli, ma senza impegnare soldi che non hai e soprattutto senza chiederli a noi”.
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Se il tesoretto è solo un’arma di distrazione di massa
di Fabrizio Forquet
Con dati occupazionali che restano al minimo storico e una produzione industriale che continua a deludere, dovrebbe essere chiaro a tutti che è tempo di serietà e non di distrazioni. Tanto meno di armi di distrazioni di massa per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dai nodi veri dell’economia e dell’azione di governo. È allora opportuno che il governo spari nel dibattito pubblico la questione del “tesoretto”? E c’è davvero un “tesoretto” da spendere nelle pieghe del nostro bilancio pubblico? La risposta è no, no secco, su entrambe le domande. La questione evidentemente non è semantica. Lo è anche, perché la parola “tesoretto” sa di presa in giro. Ma anche se lo si chiama bonus, può un governo che tiene alla sua reputazione annunciare un bonus di 1,6 miliardi quando ha davanti le urgenze che ben si conoscono? Per il prossimo anno, è ormai cosa nota, Renzi e Padoan dovranno trovare 16 miliardi di euro per evitare il disastroso aumento della pressione fiscale legato all’incremento dell’Iva. Sono tagli di spesa dolorosi che dovranno trovar posto nella prossima legge di stabilità. Per quest’anno, poi, il governo non è ancora riuscito a trovare la copertura alla decontribuzione per chi assume stabilmente. Si tratta di poche decine di milioni. Eppure il decreto è rimasto fermo un mese alla ragioneria perché si individuassero quelle risorse e, alla fine, è stato sbloccato solo ricorrendo al paradossale aumento generalizzato dei contributi. Una figuraccia per il governo, che ha dovuto fare marcia indietro. Ma anche il segno di quanto sia difficile ritagliare risorse disponibili in un bilancio già sotto stress.
Un bilancio che per quest’anno vede affidati 5,2 miliardi di tagli alla difficile trattativa con gli enti locali e le Regioni, che conta su 3,3 miliardi di lotta all’evasione tutti da realizzare, che confida in un via libera tutt’altro che scontato della Ue su 1,7 miliardi frutto di split payment/reverse charge e, non ultimo, deve ancora trovare circa un miliardo di euro per la bocciatura della Robin tax da parte della Corte costituzionale.
Come si fa a parlare di “tesoretto” da distribuire davanti a tutto questo? Di questo gruzzolo di 1,6 miliardi, che poi tanto gruzzolo non è, che si sarebbe improvvisamente materializzato all’interno del bilancio? Di fronte a tante emergenze sarebbe il caso di tenerlo da parte quel tesoretto, anche se fosse davvero disponibile. Ma quel che è peggio è che quei soldi proprio non ci sono. Quei soldi sono un deficit. Sono il differenziale, indicato nel Def, tra l’obiettivo programmatico di un rapporto deficit/Pil a 2,6% e un tendenziale di 2,5%. Da qui quello 0,1% di Pil che si potrebbe spendere. Ma è tutta roba di carta, numeri astratti e potenziali.
Quella franchigia, in sostanza, si determina sulla base di un aumento del Pil che il Governo stima superiore a quello che era stato precedentemente previsto e di tassi di interesse in declino. Una previsione, dunque, non un dato di fatto. Il governo stima che cresceremo quest’anno non più allo 0,6 ma allo 0,7%. Una previsione anche prudenziale, dicono al Tesoro. Ma è pur sempre una previsione. Ed è bene ricordare che nell’ultimo decennio tutte le stime sul Pil effettuate dai governi nel Def/Dpef – sempre prudenziali per carità – sono state inesorabilmente riviste al ribasso al momento del consuntivo di fine anno. C’è da sperare che quest’anno non accadrà, e che l’Italia crescerà più dello 0,7% previsto, ma impegnare oggi risorse sulla base di una stima, di un auspicio, è un artificio molto a rischio. Tanto più se quelle somme vengono poi prenotate e contese da ministri e partiti (anche quelli di opposizione) proprio come fossero piovute dal cielo e, quindi, potenzialmente destinabili agli usi più vari, con una evidente strumentalizzazione elettoralistica e al di fuori di qualunque progetto di politica economica.
Non è un caso se all’interno del Def si parla di destinare quei fondi all’attuazione delle riforme. Perché, evidentemente, al Tesoro sanno bene quanto siano scarse le risorse disponibili per mettere in atto il programma impostato dal governo. A cominciare dall’attuazione delle deleghe sul lavoro e sul fisco, queste sì urgenze di cui varrebbe la pena occuparsi. Forse andrebbe ascoltato Lorenzo Codogno, stimato chief economist del Tesoro fino a qualche mese fa, che proprio ieri ha scritto: «Renzi parla di un tesoretto. Ma la realtà è che, senza una ulteriore riduzione strutturale della spesa, il finanziamento di nuove iniziative è a rischio». P.S. C’è da auspicare che la partita della paradossale copertura del taglio contributivo per chi assume a tempo indeterminato con l’aumento generalizzato dei contributi sia definitivamente superata. Purtroppo l’impegno del ministro Poletti fa riferimento a un’intenzione e non ancora a una soluzione. Speriamo che questa venga trovata presto.
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