Quando un governo come questo assicura di non voler toccare le pensioni, meglio mettersi sull’avviso e prepararsi allo scontro.
Rispondendo a un normale question time alla Camera, il ministro del lavoro Poletti ha rassicurato tutti: niente interventi sulle pensioni di livello “elevato”. poi s’è lasciato sfuggire il “quanto elevato” e tutti hanno capito che in realtà si parla di pensioni normali, ancorché leggermente superiori alla media: 2.000 euro.
Corrisponde più o meno a quanto percepisce un insegnante che si è ritirato col massimo dell’anzianità di carriera (42 anni). Difficile qualificarle come “pensioni d’oro”…
Ma c’è di peggio. Il tutto ruota intorno alla proposta di “riforma del sistema pensionistico” ideata da Tito Boeri, che evidentemente ancora non si è accorto di esser diventato presidente dell’Inps, quindi incaricato di “gestire” il sistema che c’è (già pesantemente ridotto), non di prospettarne altri.
L’argomento avanzato per delineare l’ennesimo attacco alle pensioni è trito e ritrito: “molte pensioni, maturate con il metodo retributivo – quello in vigore fino al 1995, all’epoca della “riforma Dini”, ndr – forniscono un assegno più alto di quanto non avverrebbe tenendo conto dei contributi effettivamente versati”.
In questo modo si compie un’operazione di immensa disonestà intellettuale. In primo luogo perché è falso: la maggior parte delle pensioni che danno più di quanto versato sono quelle minime, erogate a persone che sono state disoccupate per tutta la vita o per lunghissimi periodi (soprattutto donne). In dettaglio, secondo lo stesso rapporto dell’Inps, su 16 milioni 393 mila e 369 pensionati, circa 8 milioni, 558 mila e 195, ben il 52,2% percepiscono prestazioni totalmente o parzialmente a carico della fiscalità generale.
In secondo luogo perché il cambiamento del sistema di calcolo (da retributivo a contributivo) è stato deciso proprio per “risparmiare” sulle pensioni future. E non cifrette: si parla di quasi 1.000 miliardi da qui al 2050. Due terzi del Pil che non andranno a irrobustire la domanda interna. Scoprire oggi, a venti anni di distanza, che appare “ingiusto” che ci siano lavoratori trattati in modo diverso a seconda del tempo in cui erano occupati può significare solo una cosa: che si sta pensando di trattare tutti col metodo peggiore, quello più svantaggioso. Così come è accaduto per le tutele sul lavoro: era un'”ingiustizia” che fossero stati creati due mercati del lavoro, da una parte i “garantiti” e dall’altra i precari; la soluzione è stata rendere tutti precari e licenziabili in qualsiasi momento, azzerando l’art. 18.
In terzo luogo perché trasforma la previdenza sociale (un sistema per mantenere in vita le persone anziane anche indipendentemente da una vita di occupazione “regolare”, ovvero con regolare busta paga e versamento dei contributi) in una banale questione individuale, secondo cui puoi riprenderti (al netto delle tasse) solo la cifra esatta che hai versato. Lasciamo da parte l’infinita varietà dei casi individuali (c’è chi muore il gioro dopo essere andato in pensione o anche prima di andarci e chi – molti meno – campa cent’anni), che rendono comunque quel ragionamento contabile una presa per i fondelli.
Pensiamo per esempio a quei ragazzi che saranno impiegati per l’Expo e obbligati-convinti a lavorare gratuitamente. Quei sei mesi di lavoro, nella loro vita contributiva, varranno esattamente zero. Come se non avessero fatto nulla per tutto quel tempo. Eppure staranno tutti i giorni “allo sgobbo”, senza prendere un euro né di salario né di contributi. Con quale sistema di calcolo verranno considerati quei sei mesi? Tutto in cavalleria perché a zero contributi dovrebbe corrispondere – secondo mr. Boeri – un bel zero anche di assegno pensionistico futuro?
Tanto furore anti-pensionati può sembrare addirittura guori tempo, visto che nel bilancio del sistema previdenziale italiano – presentato ieri alla Camera dei Deputati – la spesa per pensioni previdenziali in Italia per il 2015 è prevista in calo a 206 miliardi di euro.
Ma proprio questo “girare intorno alla torta pensionistica” da parte del governo ha finito per inquietare – non paradossalmente – proprio i titolari attuali o futuri di “pensioni alte”. Un editoriale del Corriere della sera di oggi, che di seguito vi proponiamo, mette lì in bella mostra l’indignazione civica di chi vede nel possibile attacco alle proprie garanzie pensionistiche una “messa in discussione del patto tracittadini e Stato” (giusto; ma è stato così anche per tutte le altre “riforme pensionistiche”, a cominciare dalla Dini, tutte benedette dal Corriere e dagli altri giornali padronali). Anzi: addirittura una “sottile forma di tortura”.
Impagabile, infine, l’accenno alla truffa dello “scontro generazionale” inscenato con qualche successo dai politicanti degli ultimi venti anni, ben supportati da tutta la stampa mainstream. Una definizione tanto giusta quanto tardiva: far pagare padri e madri illudendo i figli. Non si poteva dire meglio. Si vede che al Corriere il portafoglio sta molto vicino al cuore e tiene sveglio il cervello…
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Pensioni una sottile tortura
Daniele Manca
Si sta alzando un rumore di fondo poco sopportabile sulle pensioni. Chiunque, a diverso titolo, abbia a che fare con la previdenza sembra sentirsi in diritto di indicare quali debbano essere i cambiamenti necessari al sistema pensionistico. E quello che disturba maggiormente è che viene utilizzato un approccio esclusivamente contabile per farne discendere possibili modifiche o, abusando del termine, riforme.
Si dimentica che ogni volta che si interviene sulle pensioni è come se si procedesse, con molta leggerezza, alla rottura di un patto tra cittadino e Stato. Nel 2011 è stata varata una dolorosa riforma che porta il nome dell’allora ministro del Lavoro, Elsa Fornero. Dolorosa quanto necessaria e, a unanime giudizio, il passo che ha garantito all’Italia di poter riprendere un cammino di risanamento dei conti pubblici e di potenziale sviluppo.
Gli effetti sono stati pesanti sui cittadini ma altrettanto positivi sulla stabilità finanziaria del nostro Paese. La dimensione di quanto fatto nel settore l’ha ricordata Enrico Marro lo scorso 14 aprile su questo giornale, sottolineando come a pagina 83 del Documento economico e finanziario (Def) venisse indicato il risparmio dovuto ai vari interventi sul sistema pensionistico dal 2004 al 2011 (Fornero compresa). Risparmi valutati in 60 punti di Prodotto interno lordo fino al 2050. Vale a dire mille miliardi attuali.
Una cifra rilevante e che di per sé dà la misura delle conseguenze sulle persone. Per avere un punto di riferimento, il debito pubblico italiano, secondo Banca d’Italia, era pari a febbraio di quest’anno a 2.169,2 miliardi. È comprensibile quindi come ogni volta che si paventano possibili misure sulle pensioni si mandi in fibrillazione, in modo superficiale e immotivato, larghe fasce di popolazione.
Con leggerezza si parla di trattamenti pensionistici e spesso ci si dimentica, in buona o in malafede, di distinguere tra quelli già in essere e percepiti attualmente da quelli futuri. Con altrettanta poca accortezza si procede a ricalcoli che riguardano i redditi di alcune categorie, lasciando sottintendere, anche qui, dei provvedimenti. Si alimenta così nel Paese una paralizzante sensazione di precarietà.
Colpevolmente si tende a indicare come un problema previdenziale l’assistenza dovuta a persone che in tarda età e lontani dalla pensione si trovano a perdere il lavoro. Con artifici retorici si disegnano interventi per accompagnare al ritiro definitivo dal mondo del lavoro chi si ritrova disoccupato attorno ai 60 anni.
Si vorrebbe rendere più flessibile l’uscita con l’illusione che la si possa finanziare attraverso una riduzione dell’assegno percepito da chi ne usufruisce e, magari, intervenendo su quanti godono di elevati trattamenti. Già: ma chi decide quando un trattamento diventa «elevato»? E non è un errore mettere in uno stesso calderone chi si gode una pensione pagata con i propri contributi e altri che devono il proprio assegno all’uso furbo di leggi e leggine?
Si parla di pensione e se ne fa una questione di risorse. Come se a decidere di intere generazioni debbano essere dei calcoli attuariali. Con singolare miopia si fa di tutto per accompagnare al ritiro quanti sono nel pieno della maturità lavorativa. Invece di risolvere una eventuale disoccupazione cercando di ricollocare e utilizzare al meglio le qualità accumulate dal singolo, si cerca di eliminare il problema mettendolo a carico della collettività.
Si prefigura incoscientemente una situazione paradossale nella quale individui ricchi di professionalità ed esperienza vengono messi da parte per incapacità di aiutarli a trovare un nuovo impiego. Lo si fa con la motivazione di dare spazio ai più giovani. Quasi fosse più semplice inserire nel mondo del lavoro chi ci prova per la prima volta. Si trasforma il drammatico problema dell’occupazione o del reimpiego ancora una volta in una questione previdenziale. Ed è questo l’inganno peggiore: far pagare padri e madri illudendo i figli.
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