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I volenterosi sponsor dell’Isis. Alleati ingombranti per Usa e Unione Europea

La coalizione internazionale che afferma di voler combattere lo Stato Islamico ha troppi scheletri nell’armadio per essere credibile. Una indagine minimamente seria porta facilmente a galla le connessioni tra “alleati” come Turchia e Qatar con i tagliagole che terrorizzano il Medio Oriente e hanno fatto strage a Parigi. Quello che tutti sanno e che fanno finta di non sapere, continua ad essere la contraddizione principale della coalizione di potenze europee e statunitensi che annunciano sfracelli contro l’Isis consapevoli che dovrebbero prima far pulizia tra i propri alleati e all’interno dei propri apparati di intelligence. Con il rischio di veder aprire gli armadi e fuoriuscire gli scheletri di anni di finanziamenti, armamenti, complicità forniti ai gruppi anti-Assad. Il ginepraio costruito in questi anni dalla spregiudicata politica statunitense ed europea tesa alla continua destabilizzazione in Medio Oriente, non appare di facile risoluzione. Li abbiamo definiti “apprendisti stregoni” proprio per questo. Qui di seguito postiamo un interessante articolo di Claudio Gatti e poi un suo commento, usciti entrambi oggi sul Sole 24 Ore, a conferma delle denunce che abbiamo fatto in questi anni di “guerra alla Siria”.

I C-17 del Qatar, le coperture di Ankara l’«agente di viaggio» della Cia e le armi destinate ai ribelli in Siria

Di Claudio Gatti

Nella lotta all’Isis tutto sembra chiaro: da una parte la civiltà moderna, dall’altra il terrore oscurantista. Nessuna via di mezzo. Ma è veramente così? Per esempio ci si può fidare fino in fondo delle intenzioni di Turchia e Qatar? E non è che gli stessi Stati Uniti abbiano in qualche modo concorso ad armare formazioni terroristiche in Siria?

Per ora nessuno si azzarda a fare queste domande ad alta voce. Ma i dubbi circolano. E per buone ragioni. Da un’inchiesta del Sole 24 Ore risulta infatti evidente che Turchia e Qatar non solo hanno interessi in contrasto con chi vuole sconfiggere il terrorismo islamista, ma hanno probabilmente armato formazioni estremiste associate a quel terrorismo. Sono inoltre emersi indizi che portano a pensare che anche gli Stati Uniti possano aver agevolato spedizioni di armi a militanti islamisti in Siria, la terra del Califfato.

Da anni Washington teme che Ankara e Doha diano armi a formazioni islamiste sia in Libia sia in Siria. Ma a far pensare che gli stessi Stati Uniti li abbiano aiutati a farlo è una serie di voli di aerei da trasporto militare denunciata dal New York Times e oggetto di un’inchiesta dell’Onu.

Il sospetto che quegli aerei trasportassero armi non è finora stato suffragato da prove concrete, ma alcuni dati sono stati accertati. Si sa per esempio che i C-17 utilizzati per la spedizione erano qatarini, che i destinatari dei carichi trasportati erano turchi e che a fornire pianificazione e logistica per quei voli sono stati degli americani. Ma non americani qualsiasi, bensì funzionari di una società che tempo fa è stata chiamata dai media statunitensi «l’agente di viaggio della Cia». La qual cosa porta ovviamente a dedurre che il carico di quegli aerei non consistesse in beni umanitari.

Per capire la fondatezza di questo scenario occorre conoscere meglio il ruolo, o i ruoli giocati da Ankara e Doha.

Formalmente Turchia e Qatar stanno dalla parte nostra. La prima è uno storico partner commerciale, il secondo investe da tempo un fiume di petrodollari negli Usa e in Europa, Italia inclusa. Ed entrambi continuano a consentire quello che nessun altro Paese musulmano consente: l’uso del proprio territorio alle forze armate occidentali. Della Nato per quel che riguarda la Turchia, degli Stati Uniti e Gran Bretagna per il Qatar.

Nella lotta al terrorismo Turchia e Qatar non sono però semplicemente negligenti. Hanno interessi opposti a quelli del mondo occidentale. E lo stanno dimostrando concretamente in tre dei grandi punti caldi del momento: Israele-Gaza-West Bank, Libia e Siria. Il tutto sotto gli occhi preoccupati ma anche accondiscendenti dell’intelligence americana. E qui è inquietante il parallelo con al Qaeda, l’organizzazione creata da alcuni dei militanti islamici che Washington aveva aiutato nel combattere l’invasore sovietico in Afghanistan negli anni ’80.

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“Gli amici-nemici dell’Occidente al fronte”

Claudio Gatti

Nel Medio Oriente, si dice, non ci sono amici o nemici permanenti. Dipende dal momento. Ma la categoria più pericolosa è una terza: gli amici-nemici. Il dubbio è che Turchia e Qatar appartengano a quest’ultima categoria. La certezza è che i loro interessi, sia tattici sia strategici, non coincidono con quelli degli Stati Uniti e dell’Europa. In Libia e in Siria in particolare, anziché sulle forze moderate turchi e qatarini hanno scelto di puntare sulle formazioni islamiste.
«Per il Qatar i motivi non sono ideologici, ma geopolitici. Doha riteneva che dalla Primavera araba sarebbero usciti vincenti movimenti islamici come i Fratelli musulmani. E ha deciso di appoggiarli non perché ne condividesse i programmi ma perché erano convinti fossero i cavalli vincenti e speravano di trarre beneficio dal loro successo», spiega Giorgio Cafiero, co-fondatore della società di consulenza Gulf State Analytics. «In più era un modo per innervosire i loro vicini/rivali sauditi, che vedono i Fratelli musulmani come il fumo negli occhi».
«La strategia politica dei qatarini è difficilissima da capire, anche perché a Doha non c’è pubblico dibattito e tutto viene deciso da un numero ristrettissimo di persone. Ma a mio parere il finanziamento a formazioni islamiste estere è una sorta di pizzo: il Qatar paga per non avere problemi con terroristi che potrebbero sceglierlo come bersaglio per via della base anglo-americana al Udeid», azzarda Daniel Serwer, ex vice ambasciatore americano a Roma oggi professore alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies di Washington.
La stessa logica, dei finanziamenti in cambio della non-belligeranza, potrebbe valere per la Turchia, che assieme al Qatar è l’unico altro Stato musulmano ad aver aperto il proprio suolo a basi americane o europee. Alcuni pensano che anche per questo Ankara abbia per lungo tempo lasciato che Isis si servisse pressoché liberamente della cosiddetta “Autostrada della Jihad”, e cioè la rotta dalla Turchia alla Siria attraverso la quale il Califfato di al-Baghdadi si è rifornito di armi e combattenti stranieri.
Ma se persino dopo che Isis ha scatenato una serie di attentati in terra turca Ankara non ha scatenato le proprie forze armate contro il Califfato limitandosi ad arginare i flussi delle sue linee di rifornimento e a concedere l’uso delle proprie basi agli americani, è perché in Siria la priorità non è quella di ridimensionare al-Baghdadi bensì i curdi. «Nonostante gli annunci di rito, Ankara non ha mai assunto un atteggiamento veramente belligerante nei confronti dell’Isis. A parte controlli serrati al confine, ha fatto ben poco», conferma Wolfango Piccoli, direttore della ricerca della società di consulenza strategica Teneo International.
«Per i turchi la priorità è combattere gruppi curdi ed evitare che creino una fascia da loro controllata lungo il confine che dalla Siria porti all’Iraq. E comunque Ankara non è disposta ad assumere un ruolo attivo contro Isis se non si risolve prima la questione di Assad. In termini di importanza, per i turchi l’ordine è: curdi, Assad, Isis. E questo significa che con l’Occidente c’è un problema di interessi chiaramente contrastanti». Non è un contrasto da niente. Perché, come si legge in un recente rapporto del Servizio di ricerca del Congresso americano, «i curdi delle Unità di protezione popolare, o Ypg, sono ritenuti l’unica forza militare in grado di contrastare l’Isis sul campo». E poiché, dopo l’esperienza in Iraq, a Washington c’è scarso appetito per un intervento che preveda l’invio di militari, i curdi offrono l’unica possibile alternativa.
«L’Ypg è legato agli indipendisti del Pkk, il Partito dei lavoratori di Abdullah Öcalan,nemico storico dei turchi. E Ankara teme che se all’Ypg fosse consentito di creare unproto-Stato curdo in Siria, non solo potrebbe dare supporto tattico e strategico alle operazioni del Pkk in Turchia ma anche alimentare indirettamente gli aneliti indipendisticidei curdi della Turchia», osserva Cafiero, secondo il quale neppure dopo Parigi ci si deve aspettare che Ankara o Doha facciano scelte differenti: «A noi la loro strategia può sembrare paradossale, ma dal loro punto di vista non lo è affatto. Anzi, finora è risultata vincente. Perché entrambi i Paesi sono riusciti a promuovere interessi nazionali in diretto contrasto con quelli occidentali senza in alcun modo inimicarsi l’Occidente e pagarne il prezzo».
Basti pensare alla reazione di Usa ed Europa dopo l’abbattimento del Sukhoi-24 russo in volo lungo il confine turco-siriano: nessuno si è azzardato a criticare Erdogan. O alla vendita di elicotteri Apache al Qatar per 11 miliardi di dollari siglata il 14 luglio dell’anno scorso a Washington dal Segretario alla Difesa Chuck Hagel. In quell’occasione Hagel definì «di importanza critica» la relazione tra Usa e Qatar e dichiarò di essere «felice che continui a diventare sempre più stretta».
Insomma, la realtà è che gli Stati Uniti non ritengono di avere alternative nel teatro mediorientale. E quindi si tengono stretti amici-nemici come Turchia e Qatar. 

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