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Alitalia privata? Un fallimento tra pasticci padronali e “regole europee”

La storia dei proprietari di Alitalia è un paradigma di come (non) funziona il capitalismo all’italiana. Tutto il modo di produzione sta attraversando da dieci anni una crisi senza via d’uscita, ma qui si riesce ad aggiungere al dramma quel tanto di commedia che rende il tutto indigeribile.

Dovreste sapere che Alitalia – ex compagnia di bandiera un tempo controllata dallo Stato attraverso l’Iri – è stata progressivamente debilitata intenzionalmente dal management perché si era deciso, a livello di Unione Europea, all’inizio degli anni ‘90, che sarebbero rimasti solo tre vettori (Lufthansa, British e Air France), con la compagnia italiana affidata alle cure francesi. Quando è finalmente arrivata al punto di “cottura” programmato, però, è finita preda della competizione elettorale del 2008, con Berlusconi che si inventa una “cordata italiana” per rastrellare un po’ di voti in più. La prende un gruppo di imprenditori a digiuno di trasporto aereo (a parte il fallito Toto, padrone di AirOne, inspiegabilmente comprata proprio da Alitalia nel bel mezzo delle procedure di privatizzazione), che riesce a riempirsi di debiti in pochissimi anni nonostante il dimezzamento di dipendenti e salari, la liberazione dai debiti (assunti in proprio dallo Stato) e un po’ di deroghe alla contrattazione collettiva (vedi https://contropiano.org/editoriale/2017/04/25/no-alitalia-parla-tutti-091162).

Altra crisi, altri tagli e nuovi padroni: un pool di banche nazionali e un vettore importante (Etihad, sceicchi di Dubai). Ma stesso modello industriale (prevalenza del medio raggio) e un restyling delle divise delle hostess. Poteva funzionare? No, e dunque si arriva alla crisi attuale, per cui sono stati nminati tre commissari liquidatori dopo il NO dei lavoratori al referendum su un “piano industriale” che per la stessa azienda non era tale; solo un prendere tempo tagliando stipendi (dall’8 al 30%), posti di lavoro, rotte, ecc. Un modo piuttosto squallido (ma ci pensa la stampa di regime a fiancheggiare gli squallidi…) per scaricare su di loro la "responsabilità" del fallimento.

I commissari liquidatori (Luigi Gubitosi, già amministratore delegato in pectore nel caso avesse vinto il SI, Enrico Laghi e Stefano Paleari) stanno ora lavorando a una breve continuità produttiva in attesa di vendere l’azienda o chiuderla con una vendita “frazionata” (gli aerei di qua, la manutenzione – forse – di là). Gli avvoltoi – i possibili compratori – aspettano l’ultimo momento in attesa che il prezzo diventi risibile.

Come andrà a finire? I lavoratori dovranno seguire tutto il percorso con infinita diffidenza, a cominciare dalla inesistente capacità contrattuale dei sindacati complici (Cgil,Cisl,Uil, Ugl) che avevano firmato paciosamente il finto piano industriale poi bocciato dal voto. Ma a cominciare anche dagli stessi commissari, il cui compenso è al momento sconosciuto ma sicuramente milionario, comunque vada.

Intanto vengono fuori le magagne, sotto forma di “contratti derivati”. Una mossa fatta dal management dell’azienda, che ha sottoscritto clausole suicide – per esempio – sul prezzo dei carburanti (teoricamente per coprirsi dal rischio di un aumento improvviso, che non c'è mai stato né poteva esserci in tempi di crisi globale e riduzione dei consumi petroliferi). Naturalmente i commissari, chiamati ad eliminare come prima cosa le perdite immotivate, vorrebbero chiudere questi contratti, recuperando almeno 128 milioni di euro. E che ci vuole, direte voi…

Il problema è che questi contratti sono stati siglati con tre banche (Intesa, Unicredit, MontePaschi) che sono anche azionisti di Alitalia. Indifferenti a ogni conflitto di interesse, infatti, le banche si erano premurate di scaricare su Alitalia (da loro controllata) un po’ di spazzatura finanziaria per loro molto redditizia. Se Gubitosi chiude ora quei contratti, le banche ci rimettono un sacco di soldi (aggravando la situazione di istituti a loro volta sotto “salvataggio” pubblico, vedi MontePaschi). A complicare l’impiccio, sono le stesse banche che dovrebbero teoricamente ricevere il prezzo ricavato dalla vendita di Alitalia, e quindi teoricamente interessate a non farla deprezzare troppo.

La storia è ovviamente molto più complicata, come si conviene a un “magheggio” finanziario (vedi http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2017-05-08/alitalia-buco-350-mln-derivati-beffa-le-banche-azioniste-191846.shtml?uuid=AEKyDXIB), ma si capisce bene lo stesso perché questa azienda, gestita in questo modo, non poteva proprio produrre un euro di guadagano in un settore – il trasporto aereo – che è invece tornato a crescere, e di molto.

E i famosi “privilegi” di cui avrebbero ancora goduto i dipendenti, nonostante gli stipendi (e i posti di lavoro) dimezzati?

Un’analisi condotta da specialisti del settore aereo – pubblicata da La Stampa qualche giorno fa – ha “scoperto” che in realtà il costo del lavoro in Alitalia è molto più basso rispetto alle tre grandi compagnie europee e addirittura competitivo anche rispetto ad alcune compagnie low cost. Antonio Bordoni, docente di “gestione delle compagnie aeree” alla Luiss, ha spiegato che il costo medio per dipendente di Alitalia è di 49.000 euro l’anno (è una media sul “lordo”, comprensiva cioè di contributi previdenziali, ma soprattutto appiattendo le retribuzioni di dirigenti, piloti, assistenti di volo, personale di terra, ecc); mentre nella concorrenza “di bandiera” viaggia tra i 70 e gli 81.000 euro annui. Un bel 30-40% in meno, insomma. Dunque il “buco” non viene da lì, anzi dal costo del lavoro deriva un vantaggio competitivo da paura…

Sarà allora colpa della “produttività”? Quegli infingardi di dipendenti lavorano insomma troppo poco? Sbagliata anche questa. L’indice complessivo di produttività – che nel settore aereo si chiama “Rpk per dipendente”, ossia il rapporto tra numero dei passeggeri trasportati, numero dei chilometri effettualti, numero dei dipendenti – vede comunque Alitalia sopra ad Air France e British Airways, battuta di un soffio da Lufthansa.

Stabilito questo, anche il professore della Luiss (l’università privata di Confindustria, mica il Petrosoviet nel 1917!) si deve arrendere e ammettere che il problema nasce da qualche altra parte, nella gestione aziendale. Ma lì si stende una coltre di nebbia, con bilanci “complicati”, voci di spesa che ogni compagnia colloca sotto classificazioni diverse, revisioni periodiche degli aerei che non sono annuali e dunque comportano costi molto diversi da anno ad anno, rendendosi problematico ogni confronto (se A fa una “revisione straordinaria” e B no, sembra che A spenda troppo; l’anno dopo avviene il contrario). Poi ci sono le stranezze incomprensibili, come le commissioni sui biglietti garantite alle agenzie di viaggio, che per Alitalia costano il 5,64%, mentre per i concorrenti meno dell’1%. E nemmeno si può dire che le tariffe Alitalia siano troppo alte, perché ormai sono più che competitive, quasi al livello delle low cost (che però godono dei contributi di consorzi pubblico-privato che vogliono mantenere l’aeroporto locale in funzione).

C’è un “basso tasso di riempimento degli aerei” anche quando le tariffe sono molto convenienti. Ma allora il problema sta nella rotta (poco appetibile) o negli orari fissati dagli slot (diritti di decollo e atterraggio) dei vari aeroporti. In ogni caso, scelte sbagliate del management…

Persino il prof. di Confindustria, alla fine, mette il dito nella piaga: si è investito poco sul “lungo raggio”, ossia sui voli intercontinentale, che offrono un margine di guadagno molto più alto e non soffrono (ancora) della concorrenza low cost. E il motivo sta nelle “regole europee”, che impediscono a un socio extraeuropeo di avere più del 49% di una compagnia continentale. Etihad ha il 49%, non la maggioranza (che è di quelle 3 banche). Dunque non ha investito, ed era l’unica a poterlo fare.

Era stato deciso, dopo gli accordi di Maastricht, che Alitalia sarebbe stata assorbita da Air France; ed erano state scritte le “regole” che avrebbero dovuto assicurare questo esito.

Dunque, l’unico modo di rilanciare Alitalia come vettore globale – guarda caso – resta la nazionalizzazione. Che infrangerebbe, forse, un’altra “regola europea”, ma porca miseria resituirebbe a questo cavolo di paese un asset industriale importante.

Ve lo dicono pure altri analisti del settore, diamine (http://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/voli-lunghi-e-piu-stato-solo-cosi-puo-ripartire/).

 

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1 Commento


  • Daniele

    I servi sciocchi dei tedeschi riescono a fare solo cazzate di grande portata, una dopo l'altra, "la primavera tarda ad arrivare"

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