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Il terremoto senza lo Stato

La vicenda del terremoto di Ischia ha assunto tinte drammatiche non solo nella sostanza ma anche per il modo in cui essa si è sviluppata per quello che riguarda il flusso di informazioni.

All’inizio i post su Facebook di qualche tuo amico: una scossa forte, che si è sentita, ma niente di così grave. Ti informi e vedi che anche all’inizio di Settembre del 2016 una scossa di piccola magnitudo ha causato molta paura tra i villeggianti e gli abitanti dell’isola. Vieni a conoscenza del fatto che l’epicentro delle scosse è spesso a poca profondità per cui anche scosse di piccola magnitudo possono provocare dei danni e mettere gli abitanti in uno stato di preoccupazione.

Fin qui tutto normale. Viene diffuso il dato relativo alla magnitudo (3.6 gradi Richter) e alla profondità (10 chilometri). Una bella scossetta ma niente di grave allora. La profondità è maggiore di quella dell’anno precedente. La Regione ha subito mandato i suoi missi dominici a controllare la situazione.

Poi il morto, i crolli, l’ospedale inagibile, gli elicotteri verso il Cardarelli, le persone che vogliono nella notte andare a confortare o a dare una mano ad amici, parenti e semplici conoscenti che pagano regolarmente quasi venti euro alle compagnie di navigazione (come se stessero andando a fare due bagni). Infine il dato dell’Ingv che viene corretto (magnitudo 4.0 e profondità 5 km). Insomma il teatro dell’assurdo. E a quel punto sbottiamo:

Pensi che il fatto che un terremoto di magnitudo 4.0 causi una emergenza sociale così drammatica non si può attribuire solo alla poco profondità dell’epicentro. C’è una scarsa preparazione delle istituzioni (a partire da quelle locali per finire alla Regione) ad eventi del genere, c’è un abusivismo edilizio feroce ma soprattutto c’è lo sfacelo promosso dai governi che si sono succeduti negli ultimi decenni, governi che hanno accettato la logica dell’austerity e dei tagli senza nel contempo agire sulle ragioni dell’inefficienza istituzionale sempre esistita. Da parte di noi tutti c’è poi una passività sociale che terrorizza, un’assuefazione quasi narcotica.

E rifletti sul fatto che Ischia ha niente meno che sei Comuni (recentemente si è proposto di accorparli in uno solo ma pare che pochi ischitani siano d’accordo) ed un solo ospedale pubblico fino alla scossa di ieri degno di questo nome. Un ospedale pubblico costruito da un industriale del Nord, l’editore Angelo Rizzoli e dedicato alla moglie defunta. E ti chiedi allora se Ischia sia mai appartenuta allo Stato italiano e se appartengono allo Stato italiano tante isole e tante località turistiche costruite dalla volontà di pochi spesso nemmeno buoni. Posti dove la speculazione edilizia è spesso il rovescio della “vocazione turistica”, del lavoro frenetico di uno sciame di cavallette che conosce solo l’economia e non le diseconomie. Posti dove lo Stato non c’è e non lo si vuole. Dove il giorno dopo ci si lamenta giustamente delle prenotazioni saltate, dei telefoni che non squillano, dell’economia che si è fermata. Posti dove tutti corrono come i ragazzini del bar. Posti dove la politica si va a fare il bagno, e basta.

Rifletti anche sul fatto che in questi posti la rilevazione sismica forse è guasta e dunque l’Ingv si è dovuto arrangiare. Abbiamo voglia a sfottere gli antivaccinisti e quelli delle scie chimiche. Se le istituzioni non mettono i soldi pure la scienza dà i numeri e fa figure barbine. Se adesso devo andare a Napoli per ricoverarmi, io ischitano posso pure pensare che la tisana di ortica sia meglio del farmaco salvavita e posso elogiare le virtù anticancerogene del limone. Perché forse sono mortificato. Forse perché piuttosto che portarmi all’ospedale il catetere comprato in farmacia preferisco fare finta che basti la fede.

E rifletti ancora sul fatto che la piccola proprietà immobiliare è incapace di prevenire, investire realmente sul bene rispettando la legge. Questa polverizzazione litigiosa non ha molto tempo davanti a sé. E la legge assieme alla pressione fiscale sta diventando il filtro grazie al quale i piccoli proprietari saranno divorati dalle grandi aziende immobiliari. E, del resto, se lo Stato vende le piccole isole ai privati perché non dovrebbe favorire la concentrazione immobiliare? Cosa impedisce ad uno Stato che ha dismesso tutto di dismettere anche i suoi cittadini? E cosa impedisce all’isolano che ha questo Stato di fronte di fare speculazione edilizia finchè può? Il patto già non c’era mai stato (e i governi vivevano di questa separazione in casa) ma ora il patto viene avocato da una parte sola in nome della legge ma non nell’interesse pubblico. Grazie ad uno Stato che si è autodeposto i cittadini tradiscono se stessi e gli altri in una microconflittualità senza quartiere. Le cavallette corrono senza guardare chi calpestano nel frattempo. Corrono per salvarsi proprio come in un terremoto.

E abbiamo voglia a fingere che possiamo rimboccarci le maniche. Spesso si favoleggia l’iniziativa dal basso, quella che sarebbe stata il culmine di un processo di democratizzazione radicale della politica. Invece si tratta dell’occupazione degli spazi lasciati vuoti dallo Stato in ritirata. Si metteranno toppe per tutto il tempo, si allacceranno fili, interi impianti (elettrici, idraulici), si faranno corsi, si parlerà, si progetterà, si riattaccheranno essenzialmente cocci. Poi quando i vuoti saranno puliti, depurati, arricchiti di luce e di ornamenti, verrà di nuovo il proprietario che dovrà vendere. E caccerà gli occupanti. O, peggio ancora, li coopterà. In quest’ultimo caso non si potranno rivendicare nemmeno le esperienze. Non si potrà nemmeno dire che abbiamo fatto proprio un insieme di conoscenze utili per il futuro. Perché non si avrà nemmeno il coraggio di raccontare.

La prevenzione delle catastrofi naturali non è la buona volontà che si esprime al momento della disgrazia. Presuppone uno sguardo nel lungo periodo, una grande capacità di investimento, una forte interdisciplinarità a livello scientifico, una capacità rivoluzionaria di far interagire scienza e domande sociali, una mobilitazione capillare della popolazione, uno sforzo collettivo di combattere qualsiasi tentativo di rimozione dettato dall’angoscia, un rinnovato senso della legge e una tensione fortissima ad interpretarla ed applicarla nella direzione della giustizia sociale.

Abbiamo bisogno dello Stato. Abbiamo bisogno di una istituzione democratica che possa emettere moneta, indebitarsi con i propri cittadini, tassarli per il benessere di tutti e non per pagare gli interessi del debito. Abbiamo bisogno di una istituzione democratica che abbia tutti gli strumenti per monitorare il territorio, per pianificare la politica industriale, per gestire i flussi energetici, per formare le generazioni future, per garantire la salute dei cittadini, per promuovere maggiore occupazione, per fornire un salario sociale a chi non ha trovato una collocazione sul mercato del lavoro.

Questa Europa può essere quello Stato? Quanto tempo ci vorrà perché lo sia? Chi è pronto a scommettere che questo avverrà in tempi ragionevoli e non nel lungo periodo in cui saremo tutti morti?

Per quanto possiamo pensare ai tanti problemi che verranno poi, c’è un solo progetto che abbia la realistica prospettiva di essere per lo meno tentato. E’ l’uscita dall’Unione Europea! Il resto non è nemmeno definibile alla luce del fatto che nessuno veramente ci crede e dunque nessuno lo immagina davvero. Facciamo un esempio: è pensabile un vero sciopero di tutti i lavoratori europei in nome degli interessi di una parte di essi? Da quanto tempo i sindacati più rappresentativi avrebbero potuto adeguare le proprie strutture (non diciamo mettere d’accordo i lavoratori) alla circolazione di merci, di uomini e di capitali che il progetto europeo ha comportato? E’ stato fatto un solo tentativo serio in questo senso? Se ne è parlato in termini diversi dalla conversazione al buffet?

Ovvio che ripiegare sul livello nazionale sembra una disfatta, sembra un venire meno ideologico, sembra una contaminazione con ideologie che abbiamo sempre combattuto. Forse manchiamo di memoria storica. E’ l’Europa che, turandoci il naso, abbiamo accettato che non ha dato la possibilità di costituire un internazionalismo conseguente. Il sovranismo pezzente di Salvini è solo l’ultima maniera del Pinturicchio, direbbe Totò. La prima maniera sono stati proprio i governi di sinistra che, grazie a Blair, a Schroder, a Prodi e D’Alema hanno indebolito la classe lavoratrice che sarebbe stata la spina dorsale di un’Europa che almeno avrebbe avvertito la contraddizione che la attanagliava. Ed hanno lavorato perché la solidarietà tra i lavoratori di tutta Europa fosse impossibile. Un esercito sconfitto ripiega per non essere massacrato. Un esercito sconfitto ripiega per trovare vie d’uscita e, chissà, la possibilità di contrattaccare. Molto spesso a sinistra si pensa di rimanere coerenti con le proprie posizioni, come se la convinzione personale bastasse a garantire questa continuità. Guardare solo alla nostra mente è un’operazione astratta: ciò che ci dice cosa siamo è la posizione all’interno del conflitto. Crediamo di pensare le stesse cose ed invece stiamo scivolando indietro. Dobbiamo pensare all’interno della situazione data. Dobbiamo fare qualche piccolo passo avanti. Dobbiamo scavare un poco nelle macerie non importa se siamo le vittime o i salvatori.

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