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Quanto sta male il giornalismo? Intervista a Fulvio Scaglione

Seconda punta dell’inchiesta #obiettivoinformazione, ovvero “quanto sta male il giornalismo?”.

Intervista a Fulvio Scaglione, per 16 anni vicedirettore del settimanale Famiglia Cristiana, editorialista de L’Avvenire, ecc.

Un saluto al nostro ospite, il giornalista Fulvio Scaglione. Buongiorno Fulvio.

Buongiorno a tutti.

Grazie per la tua disponibilità. Dopo i fatti di Ostia di qualche settimana fa, dopo la vicenda dell’aggressione al giornalista di Nemo, abbiamo deciso di dare il nostro minuscolo contributo all’analisi di un settore che ci riguarda e che tendenzialmente riteniamo molto molto importante per il normale dibattito democratico di una società, che è quello dell’informazione e della stampa. In Italia la figura del giornalista, dell’operatore del settore dell’informazione, è ai minimi storici della popolarità. E’ da diverso tempo che la figura del giornalista, in Italia, è considerata, da gran parte dell’opinione pubblica, una via di mezzo tra una sorta di pennivendolo, che non diffonde notizie ma che è al servizio di qualsivoglia potere si voglia immaginare, una sorta di giornalista perennemente embedded… Oppure si fa riferimento alla scarsa qualità dell’informazione. Sei d’accordo che la visione di gran parte dell’opinione pubblica di questo paese è questa o già questa nostra analisi ti convince poco?

No, ahimè io quello che verifico quando mi capita di andare in giro a parlare in associazioni, circoli, gruppi di qualunque genere, e questo mi capita piuttosto spesso negli ultimi anni, è che purtroppo l’immagine del giornalista è quella. Difatti io trovo abbastanza buffa tutta questa campagna che la carta stampata fa sulle fake news, perché evidentemente noi giornalisti della carta stampata non sappiamo che presso la gente siamo noi stessi considerati dei grandi produttori di fake news, cioè di notizie false, sballate, o date male, o date solo in parte, ecc. ecc. Ora magari questa considerazione nei nostri confronti, nei confronti della categoria, è un po’ esagerata, ma non è assolutamente priva di ragioni. D’altra parte in Italia la figura dell’editore puro, cioè di colui che fa dei giornali per ricavare un profitto dalla confezione e vendita dei giornali è una rara avis e lo è da molti molti decenni. E’ chiaro che se poi un giornale viene prodotto a seguito di investimenti, che sono poi molto spesso e da molto tempo in perdita, viene prodotto da una banca, da un’industria, da un gruppo politico o con forti legami politici … è abbastanza evidente che in quel caso il profitto non è l’unica ragione, ma ce ne sono di accessorie: l’influenza, il potere, ecc. ecc. Quindi questo è abbastanza chiaro e scontato. Un altro fatto, secondo me, che va tenuto in forte considerazione: è l’enorme, straordinario, appiattimento dell’informazione. Io vorrei ricordare – perché ogni tanto compaiono qua e là delle citazioni – che negli anni ’60 il Corriere della Sera diretto da Ottone, che era ovviamente il quotidiano della borghesia produttiva conservatrice italiana, faceva scrivere in prima pagina Pasolini. Un colpo d’ala così, oggi, sulla stampa italiana dove è? Chi è che ha il coraggio, in un giornale che pure ha tutto il diritto di avere le proprie opinioni, di far scrivere però anche qualcuno che abbia un vago odore di eresia rispetto a quelle stesse opinioni? Non succede. Non succede mai. E quindi anche questo va tenuto in considerazione. Abbiamo sicuramente un’informazione più appiattita, quindi più noiosa, quindi meno gradita. Io credo comunque che tutto questo discorso – e molti altri, ovviamente più approfonditi, più fondati che si potrebbero fare – vada tutto inserito dentro un altro discorso che richiama il titolo di quel libro di Julien Brenda, un libro del 1927, intitolato “Il tradimento dei Chierici”. Purtroppo io credo che nel nostro paese la classe intellettuale, chiamiamola così, ammesso che si possa usare questa definizione per un settore che comunque va dall’influencer su internet al famoso presentatore tv, al direttore di giornale, ecc. Però, veramente a me pare che in Italia questa classe intellettuale sia troppo timorosa delle opinioni fuori registro, troppo preoccupata della propria rispettabilità rispetto alle idee comuni, alle vulgate … Veramente tutti quelli che hanno un parere un po’… anche contestabile, anche criticabile, anche sbagliato, tutti quelli che hanno un parere eterodosso, che puzzano un po’ di zolfo, sono emarginati dai grandi canali dell’informazione nazionale. E questo contribuisce a tutto quello che si diceva prima. Contribuisce a rendere l’informazione più noiosa, meno credibile, ecc.

Sicuramente è così. Il giornalismo è un mestiere anche molto artigianale, secondo noi, però ci vuole molto coraggio a farlo e la schiena parecchio dritta. A volte è anche un po’ difficile poter applicare queste categorie in un contesto in cui gli editori hanno uno strapotere. Perché il problema è anche questo: le notizie degli esteri sono tutte uguali. Qualunque giornale o qualsiasi fonte di informazione uno vada ad approcciare, più o meno si parla sempre allo stesso modo, usando le stesse fonti ed utilizzando le stesse categorie. Noi ci occupiamo tanto, per esempio di Palestina, dove si fa una disinformazione che è abominevole, a nostro parere. Ma anche su vicende più mainstream, come per esempio le questioni inerenti allo stato islamico o alla guerra in Siria. E questo è grave, perché questo forse ha anche un po’ che fare con una certa sciatteria. O non è così?

Io credo che le due cose vadano di pari passo, perché quando si capisce – e si capisce sempre molto in fretta, molto presto, soprattutto chi è dentro i nostri giri, chiamiamoli così – si percepisce subito dove vuole andare quello che si chiama mainstream. A me è una parola che non piace, però si capisce subito dove i grandi gruppi puntano, che cosa hanno scelto, ecc. A quel punto, per quello che si diceva prima, o stai dentro quella roba lì o corri il rischio di finire fuori da tutto. E’ evidente che il professionista un po’ più debole, sia di coraggio personale sia di preparazione professionale, è il primo che si adegua. Io vorrei raccontare questo. È bruttissimo citarsi, ma lo dico perché io qualche dimostrazione di questo l’ho avuta anche personalmente. Nel 2003, quando tutti, vorrei ricordare, tutti dicevano che era una stupenda idea invadere l’Iraq e che sicuramente Saddam Hussein aveva le ami di distruzione di massa, io personalmente non la pensavo così e per un lungo periodo non ho più scritto una riga su un giornale, con cui collaboravo da tempo, e con cui c’era un ottimo rapporto. Questo è banale, no? Ma d’altra parte lo credo anche io: ci vuole un forte coraggio, ripeto, per scegliere una strada Corriere della Sera-Pasolini, per cui puoi avere una linea ma non temere che questa linea sia in qualche modo contraddetta da voci eterodosse. E, vorrei sottolineare, io ho fatto l’esempio del 2003, gli stessi che pontificavano allora, che ci spiegavano che idea meravigliosa fosse quella, sono poi gli stessi che hanno pontificato sulla Siria, che pontificano su Palestina e Israele, ecc. Quindi non c’è da stupirsi che l’immagine della stampa, diciamo del settore informazione in Italia, sia così bassa nel rating dei potenziali lettori. Non c’è da stupirsi che le tirature siano in calo anche per questo. Perché non è che solo ci è arrivato internet sulla schiena con tutto il suo peso… No, c’è anche il fatto che leggere i giornali è diventato più noioso, è diventato anche un po’ più utile, ovviamente, e soprattutto la gente si fida meno.

Noi portiamo un esempio pratico, e lo facciamo a tutti i nostri interlocutori di questa nostra piccola campagna #obiettivoinformazione. Proprio la vicenda del collega Piervicenzi, che ha subito quell’aggressione che ha avuto l’unico vantaggio – diciamo così – di essere ripresa mentre avveniva… Su quello si scatena una legittima baraonda mediatica, in cui comunque tutti fanno lo stesso tipo di analisi, in modo identico. Poi si esaurisce l’indignazione collettiva, dopo un paio di settimane si vota per il ballottaggio ad Ostia con una percentuale di presenze ai seggi del 33%. Nessuno analizza con tanta solerzia – in concomitanza, più o meno, con la vicenda di Piervincenzi – un’altra notizia: si registra in Italia uno sciopero generale tra l’altro molto molto partecipato, e una manifestazione nazionale i cui temi erano la lotta contro l’Unione Europea, la repressione, l’immigrazione… cioè temi interessanti. Manifestazione a Roma con 10 mia persone, non una sola parola in nessun giornale mainstream. Ma come funziona? Le stesse organizzazioni politiche e sociale organizzano una marcia di 300 migranti dal centro di accoglienza di Cona a Venezia, e se ne parla solo in seguito alla morte di un immigrato investito da una macchina. E’ possibile tracciare un criterio di scelta e di valutazione dell’importanza di una notizia in questo paese? Quali sono i modi, se è possibile ricostruirli, con cui si scelgono le notizie in Italia e si divulgano ai lettori, ascoltatori, spettatori?

Sono d’accordo con quello che hai appena detto, cioè si sceglie un po’ – diciamo così – il comodo, il sensazionalistico, anche serio, anche tragico – come il caso di questo immigrato che è morto mentre si recava alla marcia – in qualche modo viene ritenuto sempre pagante. Io ho la sensazione che un problema grosso dei giornali, dei giornali italiani in generale, è che vengano fatti – parlo di giornali perché quello è il mio mondo, io ho vissuto sempre dentro la carta – o vengano comunque concepiti con un ritardo mentale; mi sembrano fatti come se questo fosse un mondo in cui l’informazione viene trasmessa solo dai giornali, mentre invece sappiamo bene che l’arrivo della rete, di internet, ha cambiato tutto. Penso che questo sia un problema forte. D’altra parte noi vediamo bene che – e io l’ho vissuto personalmente nel giornale in cui ho lavorato tanti anni – ad un certo punto, quando si cerca di fare qualcosa, ecc. si passa ai famosi restyling che io, personalmente, proibirei per legge perché il restyling è come cambiare la camicia senza lavarsi le ascelle. Se la cosa non va, non è perché c’è un po’ più di nero in prima pagina o un po’ più bianco, o il titolo è un po’ più grosso, il pastone o il corsivo… Poi l’effetto del restyling dura due settimane, perché dopo due settimane il lettore non si ricorda più come era fatto il giornale prima. A me fa impressione vedere quanti dei giornali che non hanno capito la Brexit, non hanno capito Trump, non hanno capito il referendum istituzionale in Italia, ecc. Poi varano l’inserto culturale o, appunto, il restyling… E’ ben altro, a me pare, il problema. E’ un problema è molto di sostanza. E’ molto di sostanza e per niente di forma.

La soluzione?

Vorrei aggiungere una cosa, se posso… Come dicevo prima sto andando molto in giro e ho la fortuna di essere ricevuto in gruppi che, voglio dire .. ho incontrato persone sempre con effetti piacevoli, molto di destra, anzi di destra destra, con la celtica, ecc. E tanti molto di sinistra, di sinistra-sinistra, passando in mezzo per tante gradazioni (ambienti laici, ambienti cattolici, ecc). E quello che io ho verificato, e credo che dovrebbe essere un pensiero nostro, di chi fa informazione, è che ci sono alcuni temi, sono i soliti, sono quelli fondamentali di cui stiamo discutendo: il lavoro, l’immigrazione, la denatalità… Su alcuni temi portanti per la vita nazionale, dall’estrema destra all’estrema sinistra, passando per tutto quello che c’è in mezzo, ci sono delle consonanze molto ma molto superiori a quelle che gli stessi protagonisti immaginerebbero. E una di quelle consonanze è, appunto, la sfiducia totale nell’informazione corrente. Secondo me su quello bisognerebbe indagare e lavorare un po’ di più.

Bene, hai risposto anche alla domanda che volevo fare. Grazie ancora per la disponibilità e complimenti per il suo lavoro perché, lei rappresenta, nonostante le difficoltà, uno di quei pochi giornalisti che riescono a muoversi in un modo libero. Questo lo possiamo dire. Grazie, buon lavoro.

Grazie, troppo buoni. Buon lavoro a voi.

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