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Terremoto alla Normale di Pisa. Il problema sono le università di serie A e di serie B

È di pochi giorni fa la notizia delle dimissioni del direttore dell’Università Normale di Pisa, Vincenzo Barone, dopo un’ultima lettera inviata dagli studenti, docenti, ricercatori, assegnisti e personale tecnico amministrativo che gli chiedevano di lasciare la carica che aveva dal 2016, con il plauso dell’amministrazione leghista della città. Nei 208 anni di vita della Normale, nessun direttore si è mai dimesso prima della fine del mandato. Un pesante segnale dei tempi che stiamo vivendo, caratterizzati da una instabilità politica conclamata delle classi dirigenti di ieri ma dalla contemporanea assenza di una prospettiva di forza capace di segnare un percorso da seguire, a tutto vantaggio degli sciacalli più reazionari.

Il motivo che ha spinto studenti e lavoratori della Normale a chiedere le dimissioni di Barone, è stata la gestione antidemocratica e autoritaria delle decisioni da prendere sul futuro della Normale e in particolare su una. L’idea di Barone era di creare una sede della Normale nel Sud Italia, usando gli spazi della Federico II di Napoli, progetto già approvato dal precedente governo ed addirittura dal presidente Mattarella. La vittoria di docenti e studenti sembra però apparente. L’università per come l’aveva pensata Barone non si farà e non sarà sotto la regia della Normale che rimarrà l’unica in Italia con questo nome, ma una scuola di eccellenza a Napoli sarà sicuramente realizzata dato che nella Legge di Bilancio fresca di emanazione sono già stati stanziati 50 milioni di euro per questo progetto.

Contro Barone si schierano anche il sindaco leghista di Pisa Conti e il parlamentare Ziello sostenendo l’importanza mantenere la Normale solo a Pisa senza svuotare il territorio toscano da questa prestigiosa istituzione. Al di là di queste posizioni sterili e campaniliste occorre capire gli indirizzi politici sul mondo della formazione che vengono esplicitati in questa vicenda.

Come diciamo da molto tempo, l’università in Italia versa in una condizione tragica: finanziamenti pubblici assolutamente insufficienti e aumento delle quote su base premiale, riduzione delle borse di studio, aumento del peso delle aziende private che condizionano la ricerca sottoponendola ai loro interessi, un’intera macchina pubblica asservita alle logiche di mercato, come previsto dai vincolanti piani europei per la formazione e la ricerca. Gli effetti di questa situazione sono una maggiore polarizzazione fra pochi atenei di serie A, di alta formazione, con tasse progressivamente più alte, riservati a pochi e tanti atenei di serie B, università parcheggio con i pochissimi finanziamenti che penalizzano sia la didattica sia la ricerca, una tenaglia che porta a sfornare tanti futuri disoccupati.

Il progetto di Barone, approvato anche dal ministro Bussetti e dal governo giallo-verde, conferma questa tendenza, come già aveva fatto la rediviva proposta leghista di annullare il valore legale del titolo di studio. Invece di stanziare una quota maggiore di finanziamenti per l’alta ricerca equamente distribuiti fra gli atenei e soprattutto fra quelli più in crisi come quelli del Sud Italia, con la Legge di Stabilità il “governo del cambiamento” preferisce usare 50 milioni per creare una scuola d’eccellenza negli spazi della Federico II, ateneo in gravi difficoltà se si pensa al problema enorme delle borse di studio che addirittura non vengono erogate per anni. Senza considerare che nell’attuale legge di bilancio si parla di 10 milioni di aumento dell’Fondo di finanziamento ordinario, quindi una cifra irrisoria, e di 40 per i Cnr e gli enti di ricerca vigilati dal Miur che però saranno bloccati almeno fino a luglio per contribuire al risparmio di 2 milioni richiesto dalla Commissione Europea per approvare la manovra. Questa quota di accantonamento ha tutto il sapore di futuri tagli. Anche questo governo come quelli che l’hanno preceduto continua a portare avanti il disegno politico sul mondo della formazione voluto dall’Unione Europea, che va avanti dall’inizio degli anni ’90, volto a smantellare l’università pubblica rendendola sempre più un’università-azienda supina alle logiche del mercato e per pochi eletti.

Occorre attrezzarsi per invertire la rotta di questo progetto antiegalitario a cui è sottoposta l’università nel nostro paese. Occorre mettere davvero in discussione i vincoli imposti dall’Unione Europea per portare avanti politiche di spesa sociale che possano assicurare a tutti i propri diritti come quello dell’istruzione.

 

L’enorme peso politico contenuto nelle dimissioni di Barone, pone altrettanto grandi responsabilità alle organizzazioni studentesche che condividono la necessità di un cambiamento radicale di rotta rispetto alle brutte acque in cui versa il sistema nazionale della formazione e della ricerca. Il risultato mediatico ottenuto dalla notizia apre una finestra di possibilità che va colta, si può oggi passare dal generico seppur giusto richiamo di una più equa distribuzione dei fondi alla pretesa che si mettano in discussione fino all’ultimo centesimo i numeri previsti in finanziaria per le varie voci qui sopra indicate. Al contrario, si pagherebbe il conto scavandosi la fossa della propria inutilità, facendo da stampella alle logiche dell’eccellenza che comunque si vedono confermate nel mantenimento del progetto della Scuola del Meridione sebbene il brand della Normale si possa considerare salvo, come piace a leghisti e consimili che ben sanno che oggi l’Italia è sotto la trazione della centralizzazione europea in cui il Nord produttivo sta provando a giocarsi la sua partita.

Lottare è possibile, indipendenti dal gioco delle parti di forze sociali e politiche che rappresentano due facce della stessa medaglia.

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