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Confini sempre più sottili tra i poteri dello Stato

Felice Besostri, campione della lotta contro l’incostituzionalità delle leggi elettorali, sollecita un dibattito intorno ai temi sollevati da Azzariti in un articolo apparso il 12 gennaio sul “Manifesto”.

Allo scopo di centrare al meglio il tema riporto di seguito tre citazioni dirette dal testo in questione:

In principio:

Anomalo il comunicato della Corte costituzionale sul conflitto tra poteri dello Stato presentato dal gruppo del Pd al Senato contro le modalità di approvazione della legge di bilancio.

Il comunicato dichiara l’inammissibilità, ma poi ci tiene a dire che i singoli parlamentari possono fare ricorso. Giustifica la compressione dei lavori parlamentari, ma poi paventa una futura incostituzionalità se si dovessero adottare di nuovo simili modalità”.

Di seguito:

Non mi sembra, dunque, che si possa confidare più di tanto in futuro sul ruolo del giudice costituzionale per dirimere tale genere di conflitti.

In una certa misura è questo un esito inevitabile. Lo è nella misura in cui la politica chiede alla giurisdizione (quella costituzionale, ma spesso anche a quella ordinaria) di supplire alle sue debolezze. La giurisdizionalizzazione del conflitto politico è un male in sé, poiché segnala l’incapacità dei cittadini associati liberamente in partiti di svolgere il ruolo che la costituzione assegna loro, ovvero di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

Infine:

Ogni volta bisogna ricordarlo: i garanti della Costituzione – la Corte costituzionale, ma anche il Presidente della Repubblica – sono l’ultima fortezza a difesa della superiore legalità costituzionale. In questo ruolo decisivo di salvaguardia, però, non possono essere lasciati da soli. Quando la politica tace, ovvero fa solo spettacolo, non può pretendersi che siano i garanti a urlare. Forse non è neppure auspicabile. Non è ai soli giudici che spetta la difesa dei principi della costituzione, in primo luogo spetta a tutti noi. E questo è il vero problema di oggi: la politica assente”.

Definito così il quadro delineato da Azzariti è il caso di riprendere appieno il filo complessivo del discorso.

In realtà da lungo tempo si stanno sempre più confondendosi i confini che segnavano la tripartizione dei poteri di derivazione illuministica e adottata dalle Costituzioni liberali in Occidente e segnatamente dalla Costituzione Italiana.

La pressione per questo restringimento arrivato fin quasi ad annullare i confini è di duplice natura: da un lato l’invasione del legislativo da parte dell’esecutivo avvenuta non attraverso modifiche costituzionali (nel frattempo tutte fallite) ma per via dell’uso improprio della leva del governo.

Il governo è stato sempre più protagonista– almeno dagli anni’80 del XX secolo, – dell’uso della legiferazione d’urgenza.

All’epoca il tema dominante era quello della governabilità.

Un tema vieppiù trasformatosi nel tempo in quello di un accrescimento di peso di un ritorno alla vocazione autoritaria.

Vocazione autoritaria che, per un certo periodo, ha assunto anche le sembianze di una torsione presidenzialista almeno nella visione della riforma costituzionale tentata prima dalla Bicamerale (1997) e successivamente dal progetto del centrodestra respinto dal voto popolare nel 2006.

Dall’altro canto si è verificata la crescita di un impegno di supplenza svolto da parte della Magistratura a partire dalla “questione morale”.

Anche in questo caso siamo agli anni’80 del secolo scorso con l’avvio delle inchieste riguardanti malversazioni a Torino e in Liguria (in ogni caso differenti nelle modalità tra di loro) per poi esplodere sul piano nazionale all’inizio del decennio successivo.

Elementi che hanno portato a quella deprecabile giurisdizionalizzazione della politica cui fa cenno Azzariti nel suo articolo: un giudizio sicuramente condivisibile.

Così come appare corretto l’accenno ai partiti: la loro trasformazione, in particolare al riguardo dei soggetti a radicamento e integrazione di massa, è risultata sotto quest’aspetto decisiva perché si è innestato un processo di cambiamento del concetto stesso di rappresentanza politica.

Sotto l’aspetto della struttura istituzionale retta dai partiti l’Italia ha sempre costituito un caso molto particolare (dal punto di vista dell’analisi basta citare Scoppola): la nostra Costituzione è stata costruita proprio sulla base della presenza, nel corpo dell’Assemblea che ebbe il compito di redigerla, dei tre grandi partiti di massa; fu questo fattore decisivo per far sì che si evitasse di tradurre quel lavoro in un semplice “ritorno alla Statuto”, considerando il fascismo soltanto “una parentesi” come intendeva Benedetto Croce.

I confini che hanno diviso l’esecutivo dal legislativo e il giudiziario dal legislativo nel frattempo si sono così pericolosamente assottigliati proprio perché è mutata la funzione e il ruolo dei partiti in pieno senso politico (non certo e non solo perché è mancata l’applicazione dell’articolo 49).

Questo assottigliamento dopo aver portato alla ribalta il tema della “personalizzazione” (beninteso in un quadro sociale molto modificato dall’irrompere del consumismo e dell’individualismo competitivo, fenomeni che hanno determinato un vero e proprio “sfrangiamento sociale”) sta ora fornendo terreno coltivabile sotto i piedi di che sta spingendo verso un ritorno a forme politiche che avevamo pensato di aver superato e comunque mantenuto ai margini.

Si comprende la difficoltà a far fronte a questo stato di cose.

Per scriverla proprio in sintesi: non è soltanto questione di recuperare la “politica” ma l’intero discorso sulla strutturazione dell’agire politico.

A questo punto il tema dei partiti e della rappresentanza istituzionale risalta nuovamente come prioritario.

Un tema da affrontare nella consapevolezza di quanto è cambiato attorno a noi nel corso di questi anni ma senza cedere alla tentazione di arrendersi ai meccanismi di supplenza e di sovrapposizione cui si è accennato sia da parte del potere esecutivo sia da parte di quello giudiziario.

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