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Il prossimo governo: solo sangue, frusta e lacrime

In giorni in cui, “a sinistra”, ci si martella tafazzianamente intorno alla lista per le prossime elezioni europee, conviene alzare un attimo lo sguardo a quello che succede in campo nemico: il governo gialloverde, il padronato (nazionale e multinazionale, industriale e finanziario), la finta opposizione del Pd (che resterà tale anche nel caso diventi segretario il fratello di Montalbano).

Com’è noto, non abbiamo nostre “gole profonde” all’interno di Palazzo Chigi, dunque dobbiamo decodificare quel che scrivono i giornali mainstream, che invece ne abbondano.

Giornalisticamente, è il mestiere del “retroscenista” – un lontano parente del “dietrologo”, ma con informazioni decisamente più affidabili – e al momento il più attendibile è ancora Francesco Verderami, del Corriere della Sera. Il suo articolo di oggi ve lo proponiamo integralmente più avanti, ma a noi sembra importante evidenziare il punto centrale della prossima, attesa, inevitabile, annunciatissima, crisi di governo con relative elezioni anticipate.

La politica, intesa come magma di inciuci tra partiti e leader, non c’entra assolutamente nulla. Che Salvini sia un fasciorazzista che sta favorendo – attraverso l’”autonomia differenziata” (decisa dal Pd con il governo Gentiloni e la Regione Emilia Romagna) – la frammentazione reale del paese, non frega niente a nessuno.

Tanto meno al Quirinale. Quei poveretti che pensano di essere tanto “di sinistra” e si affidano alla “saggezza di Mattarella” ne verranno probabilmente devastati spiritualmente, ma qualcuno deve dir loro l’amara verità.

Il punto centrale è la crisi economica. Iniziata, devastante come dimensioni già oggi prevedibili (il -7,3% nella produzione industriale 2018 è qualcosa di più di un “momento negativo”), europea per estensione territoriale principale.

Per come è costruita l’Unione Europea – un sistema di trattati vincolanti, con meccanismi quasi automatici di correzione dei bilanci statali nazionali – tutte le variazioni negative del Pil si traducono immediatamente in “manovre correttive” primaverili o “leggi di stabilità” approvate a Natale che dovrebbero in primo luogo “salvare i conti pubblici”. Anche a costo di uccidere il paese (ricordatevi della Grecia, please).

Con due trimestri negativi alle spalle, e il tracollo della produzione industriale (confermata anche dai dati sugli ordinativi, ovvero la produzione attesa), il destino del Pil per l’anno in corso è segnato: sarà lontanissimo sia dall’1,5% sperato dal governo, sia dall’1% delle stime di Confindustria.

Siccome tutto l’impianto della “legge di stabilità” dipende dal rispetto del rapporto tra deficit (indicato al 2,04%) e Pil, inevitabilmente ne deriva che per il prossimo anno sarà necessario varare una manovra che ricorderà per dimensioni quella di Giuliano Amato nel 1992 (90.000 miliardi di lire, poco più di 46 miliardi euro), che prevedeva tra l’altro il prelievo forzoso sui conti correnti di tutti i cittadini, nella misura del 6×1.000.

Vasto programma, e niente affatto popolare.

Quale governo si potrà assumere questo fardello di impopolarità assoluta? Non certo quello attuale, che è nato sulla promessa “scritta nel contratto” di “rimettere qualche soldo nelle tasche degli italiani”.

Le divisioni attuali sono nulla rispetto a quelle prevedibili per il giorno dopo le elezioni europee, che potrebbero segnare il rovesciamento ufficiale dei rapporti di forza tra grillini e leghisti. A quel punto, anche se la “linea Di Maio” fosse ancora più sdraiata su quella del bulimico alleato, sarebbe gioco facile per la Lega forzare la mano, con la benedizione del Colle, dell’Unione Europea, di Confindustria e dello stesso Pd (membro ufficiale del “partito del Pil”, come si vede dalle manifestazioni SìTav e da quella di CgilCislUil del 9 febbraio).

Quindi, come andiamo anche noi scrivendo da tempo, si dovrà andare a un governo senza grillini, aggravandone la crisi di identità e consensi.

Una “sinistra” politicamente ambiziosa e quindi necessariamente molto più “radicale” degli esangui fantasmi che si definiscono tali, dovrebbe trovare molto interessante questa situazione – che oggettivamente consegna una possibilità di interpretare un’alternativa anche come rappresentanza politica di dimensioni accettabili – e attrezzarsi per cogliere l’occasione.

Il prossimo sarà infatti un governo assolutamente distruttivo sul piano sociale, senza più neanche i cosmetici (“quota 100”, presunto “reddito di cittadinanza”, ecc) e naturalmente ultra-securitario sull’ordine pubblico.

Anche questo “retroscena”, insomma, disegna un futuro quasi immediato più duro, aspro, altamente selettivo e con pochissimo spazio per la mediazione sociale.

Una condizione difficile per un’opposizione sociale e politica, ma che forse – forse, se sapremo lavorare seriamente – anche potenzialmente rigenerativa. Basta con la fraseologia della vaghezza, basta con i “buoni sentimenti” al posto del conflitto su programmi e obiettivi, basta con il mantra dell’”unità” da trovare in contenitori elettorali senza progetto né futuro… Avanti con l’unità costruita nell’intervento sociale, tra compagni che si danno da fare e “non se la tirano”.

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L’ombra delle elezioni in autunno, prima della nuova Finanziaria

Francesco Verderami

I prossimi cento giorni del governo potrebbero anche essere gli ultimi. Ma immaginare che le sue sorti siano legate solo al risultato delle Europee è un errore. Bastava assistere ieri alla riunione degli economisti della Lega per capire quali numeri incideranno sulla durata della legislatura. Bastava osservare i volti di chi teme i dati dei prossimi due trimestri del Pil, bastava ascoltare le analisi di chi paventa un -0,5% che scardinerebbe i conti dell’Italia e potrebbe infiammare lo spread, con conseguenze devastanti sui titoli di Stato e sul debito pubblico. Ecco qual è il problema della coalizione giallo-verde: politicamente più rilevante della crisi di consensi che i grillini mettono già in conto, più determinante di una eventuale scissione all’interno del Movimento, più forte del collante di potere che lega oggi Di Maio e Salvini. Così la mossa dei due vice premier di bloccare tutto (tranne le nomine) in attesa del voto a fine maggio rischia di non reggere: supporre — per esempio — che basti posticipare in estate la ripresa dei lavori della Tav o l’intesa con le regioni sulle autonomie, è solo un modo per non dichiarare fallimentare l’esperienza di governo prima del tempo. Inciderebbe sul loro risultato alle Europee.

Ma entrambi sono consapevoli che i numeri decisivi non verranno dalle urne, saranno bensì legati all’andamento dell’economia e stabiliranno i «numerini» della prossima Finanziaria. Siccome è chiaro a tutti cosa accadrà dopo i cento giorni di campagna elettorale, tutti hanno iniziato ad alzare lo sguardo verso il Colle, come si fa ogniqualvolta sul Palazzo prende a piovere. E tutti — maggioranza e opposizioni — interpretano allo stesso modo i segnali che giungono dal Quirinale, dove l’imperativo non è tutelare la legislatura ma tutelare il Paese. Perciò la previsione bipartisan in questi giorni, è che — al più tardi dopo il voto per l’Europarlamento — il capo dello Stato chiamerà i leader della maggioranza per capire se c’è l’intenzione di portare a compimento la prossima legge di Stabilità, che si preannuncia draconiana: una trentina di miliardi basterebbe appena per tenere a regime il sistema. L’obiettivo di verificare la tenuta della coalizione sarà fondamentale, perché l’Italia non potrebbe permettersi una crisi di governo in piena sessione di bilancio. Politici e commis di Stato fanno le stesse valutazioni dopo esser scesi dal Colle e mettono in conto il voto, «se necessario anche a fine di settembre». E se vero che non si è mai votato dopo l’estate, è altrettanto vero che di «prime volte» ce ne sono state molte negli ultimi anni.

D’altronde, piuttosto che l’esercizio provvisorio sarebbe preferibile tornare alle urne, per avere poi un governo con una prospettiva di legislatura, capace di reggere l’urto di una Finanziaria difficile. Il nuovo esecutivo arriverebbe in tempo per gestire il bilancio dello Stato e anche per scegliere il prossimo rappresentante italiano a Bruxelles, visto che i giochi della futura Commissione europea si faranno in autunno inoltrato. È un fattore non irrilevante, un altro elemento che tiene banco nelle discussioni di partito e nei colloqui istituzionali. Il resto è stallo. Mentre prosegue il tour di una campagna elettorale senza sosta, vanno in scena le manovre tattiche dilatorie, tra promesse di fedeltà al «contratto» e manovre che celano i tentativi di Opa sui voti altrui. L’immobilismo del governo contrasta però con gli appelli che giungono ai leader di maggioranza dalle periferie. E se Di Maio deve fronteggiare la rivolta rumorosa della base per come si è posto difesa del ministro dell’Interno, Salvini deve gestire il nervosismo dei suoi rappresentanti del Nord, che gli raccontano di «imprenditori stanchi» per l’andazzo.

Il tutto mentre alle Camere le opposizioni lamentano l’introduzione di fatto del monocameralismo, dato che — dalla legge di Stabilità al decreto Semplificazioni — il governo si presenta ogni volta in un ramo del Parlamento con un testo di un provvedimento che verrà poi radicalmente cambiato nell’altro ramo. Di qui le proteste rivolte a Fico, con la richiesta di aprire un’interlocuzione con palazzo Chigi. Più o meno la stessa cosa che un commis si è sentito dire al Colle, dove gli hanno spiegato di non avere più un interlocutore a palazzo Chigi. Mancano cento giorni per fare i conti dei voti europei. Ma non è (solo) da quei conti che dipenderà la sorte del governo.

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