È davvero surreale la distanza che separa i processi che si muovono su scala globale dall’autismo che caratterizza la classe imprenditoriale di casa nostra.
Mentre sull’Unione Europea e in particolare sul nostro paese si abbatte l’ennesimo tornante della crisi che conferma il fallimento di politiche di de-industrializzazione, privatizzazione degli asset strategici e compressione salariale, mentre su scala globale la Cina si presenta come locomotiva del mondo attraverso politiche volte a sostenere il mercato interno ed un piano faraonico di investimenti pubblici, il pacchetto di misure varate dal governo e contenute del DL crescita, viene salutato con ottimismo dalle pagine del sole 24ore ed addirittura definito come “una svolta necessaria di non poco conto”.
Un passaggio che segna la “riconciliazione” tra il governo giallo verde e l’associazione degli industriali (che pur senza ragione aveva storto il naso rispetto ad alcune misure contenute nella legge di bilancio che avevano leggermente rimodulato le poste indirizzandole maggiormente verso le piccole imprese) e che trova riscontro nelle parole del premier Conte secondo le quali il Governo è “un interlocutore che troverete sempre attento per favorire la crescita economica, per favorire le imprese” da intendersi “come comunità di donne e uomini” impegnate a “perseguire uno sviluppo sostenibile”.
Ma di quali misure in realtà stiamo parlando?
Siamo in presenza dei consueti interventi a favore delle imprese che si muovono sul versante dei tagli fiscali e degli aiuti agli investimenti.
Per entrare più nel dettaglio eccone alcune:
Proroga dal 1 aprile al 31 dicembre 2019 del super ammortamento al 130% degli investimenti in beni strumentali: si tratta di una misura che consente di pagare meno tasse sul bene acquistato attraverso una supervalutazione del bene, ovvero investi 100.000 euro e ne deduci 130.000.
Innalzamento della deducibilità dall’Ires e dall’Irpef dell’IMU pagata dagli imprenditori per gli immobili strumentali all’attività di impresa. Giusto per capirci: nella legge di bilancio l’attuale governo aveva già raddoppiato la deducibilità dell’IMU dal 20 al 40%, attraverso questo intervento l’aliquota sale al 50% per l’anno in corso ed arriva all’80% nel triennio 2020-2022.
Bonus per aggregazioni di imprese: si tratta di uno sconto fiscale per favorire processi di fusione e aggregazione tra imprese volte a favorirne la crescita dimensionale
Mini Ires 2.0: viene abbandonata la mini Ires (riduzione dal 24% al 15% sugli investimenti in beni strumentali) contenuta nella legge di bilancio, non particolarmente gradita alle imprese e, in una ottica di semplificazione, viene introdotta una nuova versione con una riduzione di 4 punti percentuali per gli utili reinvestiti e lasciati in azienda con una aliquota ridotta da subito al 22,5% per tutti, con la prospettiva di ridurla al 20% nel 2022.
Insomma nulla di nuovo sotto il sole: la solita ideologia secondo la quale l’impresa privata sarebbe il motore della crescita e il mondo imprenditoriale andrebbe ricoperto d’oro in quanto unico attore capace di rilanciare l’occupazione.
Ciò che però rende più surreale queste misure è il diverso contesto nel quale esse oggi si collocano.
Quel progetto economico e politico denominato globalizzazione si è rivelato sempre più un boomerang per l’Unione europea e per gli USA, oggi decisamente in affanno rispetto ai loro competitor.
La costruzione da parte di imprese europee ed americane di nuovi impianti nei paesi in via di sviluppo al fine di conquistare mercati locali e la produzione in questi paesi anche di merci richieste dai mercati dei loro paesi di origine sfruttando una forza lavoro sottomessa e meno tutelata, hanno di fatto contribuito a creare le condizioni per l’emersione sullo scacchiere geopolitico di quei paesi che soltanto qualche decennio fa chiamavamo “terzo mondo”.
Anche se i soloni della globalizzazione giammai lo riconosceranno, la competitività dei paesi emergenti che ora tanto spaventa (Cina in primis) e gli impressionanti ritmi di crescita sono stati costruiti anche da noi attraverso il trasferimento in quei paesi della produzione di beni e servizi.
Allo stesso modo i processi di delocalizzazione hanno certamente indebolito la classe operaia e il movimento dei lavoratori su scala continentale ( a maggior ragione nei paesi del Sud Europa) ridisegnando i rapporti di classe a favore del capitale.
Insomma in Europa un modello a trazione tedesca tutto orientato all’esportazione e alla compressione dei salari ha determinato una progressiva depressione dei mercati interni e dei consumi di massa.
I trattati europei, la lotta all’inflazione e l’eterno ricatto del debito hanno poi costituito la cornice giuridico-economica all’interno della quale collocare queste politiche, ma hanno anche scavato la fossa per i paesi dell’UE incapaci di reggere i ritmi di crescita dei paesi del c.d. terzo mondo.
E così mentre in Cina (magari non per filantropia) si ravvivano i consumi di massa attraverso l’innalzamento dei salari, la riduzione delle tasse per lavoratori e un gigantesco piano di interventi pubblici, nell’eurozona i livelli salariali sono da tempo al di sotto della soglia della sopravvivenza, la spesa sociale (scuola, sanità, pensioni) continua ad essere drasticamente ridotta e, specie nel nostro paese, brilla la mancanza di un qualsivoglia ragionamento volto a riportare in mano pubblica i settori strategici dell’economia (non dimentichiamo che anche nella recente legge di bilancio sono previsti 18 miliardi di privatizzazioni a garanzia della tenuta dei conti pubblici).
In questo scenario e con alle porte una manovra di autunno che si annuncia tra le più dolorose, potranno mai le consuete elargizioni alle imprese contenute nel DL crescita costituire davvero una svolta di non poco conto ?
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