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“Lasciarsi alle spalle le macerie della sinistra”

A distanza di alcuni giorni dalla recente tornata elettorale, ritorniamo sulla discussione in corso e, particolarmente, sugli effetti nel campo della “sinistra”.

E’ dal 2008 (il flop della Sinistra Arcobaleno di Bertinotti, Diliberto e Pecoraro Scanio) che è andata avanti una lunga convulsione politica (Federazione della Sinistra, Rivoluzione Civile, la Sinistra ed altri nomignoli utilizzati, spesso, sul piano locale) la quale ha – malamente – coniugato una autistica coazione a ripetere con la riproposizione di volti e programmi politici sempre più sbiaditi politicamente ma privi di qualsivoglia elemento di aderenza al vissuto vero (la connessione sentimentale di cui parlava Antonio Gramsci) dei settori popolari della società.

E’ evidente – non solo sul versante oggettivo del numero dei voti – che la variegata vicenda politica (ed elettorale) ascrivibile al ciclo della “sinistra radicale/critica/rosso- verde” è oramai definitivamente defunta.

A fronte di questa condizione – che trova un riverbero anche in alcuni risultati elettorali di altri paesi europei – serve poco arrabbiarsi o ironizzare sul repentino ritorno dei vari Fratoianni all’ovile di Zingaretti o del triste spettacolo, spesso delirante, a cui si assiste sui Social. Occorre dirsi che questi si rivelano ormai un ulteriore strumento di devastazione culturale funzionale alle pratiche dell’ideologia dominante.

Purtroppo la “sinistra” è sempre stata gravida di tali derive con buona pace di quanti, magari inconsapevolmente, ancora si ostinano ad immaginarsi un “piccolo mondo antico” a cui appellarsi o affidarsi in una congiuntura politica complessa e contraddittoria come questa in cui, tutti, siamo immersi.

Al punto politico a cui si è giunti è bene essere oltremodo chiari verso tutti e, naturalmente, se c’è ne fosse bisogno, anche verso noi stessi. Da tempo quell’enorme capitale politico proveniente dalla lunga storia del “comunismo italiano” si è andato consumando sotto i colpi dell’offensiva borghese, dello sviluppo delle forze produttive, dei cicli di ristrutturazione e nel quadro di sconvolgenti modifiche che hanno mutato la situazione internazionale. A questa distruzione ha contribuito non poco la sinistra nelle sue varie espressioni reciprocamente competitive per spartirsi un corpo elettorale in via di estinzione.

In un contesto segnato da queste immani trasformazioni, la dura realtà dei fatti si è incaricata di porre la parola fine a questo approccio meramente elettoralistico, sia nella versione della “sinistra” sia verso chi ha inteso investire – astrattamente e con una punta di malevola quanto inutile furbizia – la “falce e martello”.

Una catastrofe incubata da tempo.

Queste considerazioni non sono delle facili osservazioni con il “senno di poi”. Le abbiamo argomentate ampiamente prima e durante la tornata elettorale, con la nostra campagna “L’unità della sinistra. Un falso problema” che abbiamo discusso nei mesi scorsi in molte città. In essa abbiamo presentato le motivazioni teoriche e politiche per cui ritenevamo, e riteniamo ancor di più oggi, che bisogna rompere ogni legame con quelle interpretazioni – vere e proprie “concezioni del mondo” – che hanno informato l’intero discorso pubblico e le variegate prassi della “sinistra”, lungo tutto l’arco delle contraddizioni sociali dell’oggi.

Nel nostro documento dicevamo: “Centralità del mercato (magari da regolare) e della competitività (magari da mitigare), accettazione della gabbia europea e dell’europeismo (magari da riformare), assenza di qualsiasi allusione/suggestione verso la modifica in senso progressista dei rapporti sociali, ed infine il mito della superiorità dell’Occidente e del suo life style contro il “dispotismo asiatico” o il sovranismo in versione di destra, continuano ad essere il brodo di coltura dentro cui si alimenta, in Italia e non solo, la “voglia di sinistra”.

Ebbene questa fotografia dello “stato dell’arte della sinistra” non solo ha trovato conferma nei risultati elettorali, ma ci conferma l’impossibilità – per qualsiasi eventuale opzione di rappresentanza indipendente degli interessi dei settori popolari della società – di riferirsi ancora a questo mondo dentro il quale è in corso un declino inarrestabile.

Certo – ed anche su questo vogliamo essere estremamente espliciti – la situazione che si dipana innanzi a noi non è, immediatamente, foriera di una ricomposizione o di una ripartenza di un nuovo movimento operaio a tutto campo o in grado di rilanciare l’opzione comunista ad ampia scala. Possibilità e scenari questi che ci consentirebbero di lasciarsi, da subito, alle spalle le macerie e i guasti di questa fase politica.

Più volte abbiamo discusso (al di là di ogni ansia di prestazione elettoralistica) degli elementi di frantumazione sociale e delle profonde trasformazioni intervenute nella società, le quali rendono più complicato il percorso della ricomposizione della classe (del suo blocco storico) e la ricostruzione/riqualificazione di una nuova rappresentanza politica del nostro blocco sociale di riferimento. Ciò non toglie che per superare la crisi attuale è proprio con questi nodi strategici che bisognerà misurarsi, a partire da quello che è la classe reale oggi e che non rispetta certo i nostri modelli storici ma che ne soffre tutte le contraddizioni. Questa strada va percorsa anche contro una sinistra elitaria e supponente che è ormai percepita come nemica delle classi subalterne oggi venute a configurarsi in Italia ed in Europa.

Tale processo, a cui come RdC portiamo l’apporto militante di cui siamo capaci, non avrà una configurazione pratica lineare, ma dovrà fare i conti con le evidenti discontinuità strutturali, politiche, culturali ed ideologiche di questa fase ed anche con alcuni compiti inediti che ci si pareranno di fronte. Questa ipotesi e questo approccio stiamo iniziando a verificarlo e sperimentarlo concretamente contribuendo alla costruzione politica e programmatica di Potere al Popolo.

Se in Italia e in tutto l’Occidente capitalistico siamo di fronte al profondo mutare degli elementi di fondo della società, anche per noi si impone la necessità di andare “più a fondo” nella rottura con la “sinistra” residuale. Sempre più dovremo destrutturarne e demistificarne i riti, i codici comunicativi, il suo inguaribile politicismo e l’intero complesso dell’impalcatura filosofica e pratica su cui la forma ideologica e politica della “sinistra” ha edificato la sua costruzione identitaria e sociale in questa congiuntura della contemporaneità capitalistica.

Una rottura di metodo e di sostanza.

Occorre una cesura netta, prima di tutto di tipo teorico, con questa “tradizione politica” la quale – per essere espliciti e senza ambiguità di sorta – si è edificata (ed ha nutrito, per decenni, la sua “base materiale”) in una fase dello sviluppo capitalistico che volge al termine (sostanzialmente dall’avvio del ciclo post bellico, dopo il secondo conflitto mondiale, alla fine della cosiddetta globalizzazione).

Una nuova situazione sociale in cui vengono meno i presupposti materiali di questa “tradizione politica” in ogni sua forma e declinazione (dal ceppo socialdemocratico alle variegate versioni liberal/democratiche). Un esaurirsi riscontrabile non solo in Italia ma in tutti i paesi in cui la “tradizione comunista e/o di sinistra” ha, comunque, segnato la storia politica ed il protagonismo delle masse popolari.

Un tramonto, annunciato da tempo ma certificato formalmente anche dagli ultimi esiti elettorali, di cui bisognerà prendere definitivamente e lucidamente consapevolezza, avviando le rettifiche e le indispensabili nuove vie d’uscita in direzione di una prospettiva di classe ed autenticamente, anticapitalista.

Ed è su questo crinale politico/pratico – che molto richiama la riflessione di Gramsci sul “vecchio che muore ed il nuovo che stenta a nascere” – che collochiamo la nostra critica agli stanchi epigoni di una “sinistra” defunta ma di cui occorrerà, ancora, elaborare bene il “lutto” e la sua inservibile eredità.

 

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