Se un marziano si affacciasse in questi giorni a Bruxelles, per vedere come l’Unione Europea sta discutendo delle “nomine” per i posti più importanti, non vedrebbe qualcosa di differente – chessò… – rispetto alle riunioni con cui Palamara, Lotti, ecc discutevano di chi mettere a capo della Procura di Roma.
Come sapete, una legislatura europea e finita e un’altra è cominciata con le elezioni del 26 maggio. Bisogna nominare il “capo del governo” (il presidente della Commissione, al posto di Jean-Claude Juncker), il ministro degli esteri (oggi Flavia Mogherini), il presidente del Parlamento Ue (l’uscente è Antonio Tajani) e quello del Consiglio Ue (coordinamento dei capi di Stato e di governo, fin qui presiduto dal polacco Donald Tusk). Come se non bastasse, è in scadenza il presidente della Bce, Mario Draghi; forse la più potente delle poltrone in ballo.
L’Italietta gialloverde deve fare i conti con la perdita di ben tre di queste cinque poltrone di peso, e al massimo può aspirare ad una. Anzi, forse neanche una, se già sta ripiegando su un Commissario (ministro) in una responsabilità economica (che la Lega vorrebbe affidare a Giorgetti).
I problemi sono tanti. Ogni paese e ogni schieramento politico ha le sue ambizioni. I tedeschi avevano proposto Mafred Weber come presidente della Commissione in base al metodo degli Spitzenkandidaten (espressi dal gruppo parlamentare che ha raccolto più voti alle europee, in questo caso i “popolari” del Ppe). Ma gli è arrivata la porta in faccia da Macron e dunque non se ne farà nulla.
Questa decisione ha bloccato tutte le altre nomine, perché è chiaro che o c’è un accordo – e una mediazione – su tutto il pacchetto, oppure nisba. Il 2 luglio, però, c’è la prima plenaria del Parlamento di Starsburgo, e in quell’occasione un presidente verrà nominato comunque, magari con accordi non ufficiali, contrattati nei corridoi all’ultimo momento.
Per questo il Consiglio Europeo di ieri ha deciso di convocare un nuovo vertice straordinario il 30 giugno, per evitare che si comincino a riempire caselle senza un accordo-quadro.
Non sarà semplice. I due “pezzi grossi” storici – popolari e socialdemocratici – sono stati pesantemente ridimensionati dalle elezioni, e i nuovi protagonisti “europeisti” (liberali e Verdi) non accetterebbero di fare semplicemente i portatori d’acqua ai candidati altrui. Insomma, una complicata formula alchemica che deve tenere insieme gli interessi nazionali e quelli delle “famiglie politiche” continentali.
Questo modo di procedere chiarisce molto sul modo di funzionare della Ue e sul disastro combinato dal sistema dei trattati fin qui firmati. Ci sono delle “potenze” interne alla Ue a 27, che pretendono di continuare a dominare sull’insieme (Germania e Francia, in primo luogo), e ci sono “famiglie politiche” che si possono sciogliere in qualsiasi momento in base agli interessi nazionali.
Per il governo Conte-Salvini-Di Maio – composto da due forze fuori dalle “famiglie” più importanti, alla guida di un paese-preda – la partita è proibitiva. Avviene infatti nel bel mezzo dell’avvio della “procedura di infrazione” avviata dalla Commissione uscente, ed è fatale che la trattativa sulle nomine si intrecci in modo inestricabile con quella sulla “manovra correttiva” chiesta da Moscovici & co.
In ogni caso, non c’è traccia di possibile solidarietà “euroscettica”, perché gli stessi alleati impresentabili raffigurati come “fratelli” quando si tratta di respingere i barconi dei migranti (tipo Le Pen, Orbàn, Wilders, ecc) sono assolutamente intransigenti, come e peggio di Wolfgang Schaeuble, quando si tratta di conti pubblici.
Il rischio, evidente, è di essere costretti a mollare su poltrone “pesanti” sperando di ottenere “più flessibilità” sui conti e uno stop alla procedura di infrazione, senza però alcuna garanzia che quest’ultimo obbiettivo possa essere raggiunto.
Vero è che il governo Conte dispone di un “tesoretto” di quasi 10 miliardi, messo assieme calcolando i minori esborsi per “quota 100” e “reddito di cittadinanza”, recupero dell’evasione (5,2 miliardi), dividendi dalla gestione della Cassa Depositi e Prestiti e i maggiori dividendi di Banca d’Italia, tagli alle spese ministeriali. Ma permettono una riduzione minima del debito e, soprattutto, sono per lo più risorse una tantum.
La speranza, dunque, è di allungare i tempi della trattativa sperando che la nuova Commissione, nel frattempo, sia nominata. Ma questo indebolisce, e di molto, il potere contrattuale sulle nomine stesse.
Una certezza, però, a questo punto c’è: anche la prossima Commissione sarà composta esclusivamente da “europeisti senza se e senza ma”, soprattutto in materia economica e finanziaria. E quindi senza alcuna “sponda” amichevole. Comprensibile, dunque, che il governo cerchi di piazzare il mefistofelico Giorgetti su qualche poltrona economica rilevante; altrettanto comprensibile che, dal punto di vista di Buxelles, proprio quelle poltrone siano tabù per un leghista.
Comunque la si giri, insomma, questo governo rischia l’asfissia economia e politica.
Inquadrata così, l’ennesima sparata di Salvini – “Se non tagliamo le tasse saluto il governo e me ne vado” – appare meno militaresca e più “difensiva”. Quasi uno “speriamo che io me la cavo”, in attesa di tempi migliori.
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