Beh, i diversivi sono finiti, ora tocca parlare di cose serie…
Per il governo, e soprattutto per “il Truce”, la vicenda Sea Watch – con i suoi corollari fortemente emotivi, fatti di persone disperate, una “capitana” donna, manovre in banchina, applausi e fischi legaioli, arresto e dibattiti vari – è stata quasi una manna. Per quasi 20 giorni non si è quasi parlato di “manovra correttiva”…
I timidi accenni alla questione sono stati fatti titolare – anche dal presidente della Repubblica – come semplice “evitare la procedura di infrazione”. Silenzio pudico sul “come” sarebbe stato possibile raggiungere questo risultato.
Ora il “ decreto anti-procedura Ue” è stato approvato da un vertice di ministri privo dei due litigiosi vice (Di Maio non c’è proprio andato, Salvini si è defilato molto prima della fine). E a scorrere gli scarni capitoletti si capisce subito che si tratta esattamente di quella “manovra aggiuntiva” che tutti, “il Truce” in testa, avevano giurato non si sarebbe fatta.
Di fatto una capitolazione di fronte alla Commissione europea uscente, proprio mentre – rifiutando la nomina di Timmermans alla guida di quella nuova – si esercita insieme al “gruppo di Visegrad” un potere di veto che non resterà senza costi in futuro.
E’ il doppio binario abituale di questo governo, e specialmente della sua prorompente ala destra: spacconate a chiacchiere televisive da una parte, accettazione piena dei diktat dall’altro. Con qualche sgambetto qua e là, per “marcare il territorio” e far vedere il risentimento per esser stati fatti completamente fuori da tutte le poltrone europee che contano qualcosa.
Una modalità che si ritrova anche nel disegno della manovra correttiva, che è stata furbescamente divisa in due parti: un disegno di legge sull’assestamento di bilancio (per un totale di 6,1 miliardi) e un decreto “salva-conti” da 1,5 miliardi di euro.
Quest’ultimo è uno storno dei fondi prima accantonati per reddito di cittadinanza e “quota 100”. Perché – come avevamo visto immediatamente – paletti, condizionalità, criteri restrittivi, penalizzazioni sugli assegni pensionistici, ecc, si sono rivelati una corsa ad ostacoli che ha fatto crollare le richieste effettive rispetto alle previsioni.
Sembra, da lontano, che non cambi niente. In realtà si tratta di uno spostamento dalla “spesa sociale” alla riduzione del debito, visto che nel decreto è prevista una “blindatura” particolarmente odiosa: quel miliardi e mezzo non potrà andare ad altre spese sociali.
Una cifra così piccola (meno dello 0,1% del Pil) non sarebbe però bastata a ridurre il deficit previsto; dunque a questo scopo vengono dirottate – con l’atro decreto – tutte le entrate dello Stato risultate superiori alle attese. Quelle fiscali portate dalla fatturazione elettronica (oltre 3 miliardi, a riprova dell’immensa riserva di evasione fiscale nascosta nei comportamenti e bilanci delle aziende); ma ance le una tantum anti-evasione e i dividendi di Bankitalia, Cassa depositi e prestiti e altre partecipate di Stato.
Tutte risorse che un paese in difficoltà avrebbe potuto usare per stimolare la produzione o ridurre le devastanti disparità sociali, per rilanciare la sanità e l’istruzione pubblica, ecc. E che invece vengono usate soltanto per ridurre il debito. Gettate via, insomma…
Nonostante questo, non è affatto detto che all’Unione Europea basti. L’obiettivo di deficit al 2,1% non sarà egualmente raggiunto, seppure molto avvicinato, riducendo di ben 7,6 miliardi di disavanzo rispetto alle previsioni del Def di aprile.
Pesa naturalmente l’incertezza politica che avvolge le trattative per le nomine europee (presidente della Commissione e Bce, in primo luogo), alla ricerca di un incastro da far invidia al cubo di Rubik. Incertezza che sconsiglia, alla Commissione uscente, di calcare la mano contro un paese che con i suoi 60 milioni di abitanti – criterio che conta soltanto per le percentuali necessarie a fare le nomine, poi se ne fregano – può condizionare scelte e accordi che lo bypassino un po’ troppo.
Quindi la procedura di infrazione è al momento altamente improbabile. Ma l’appuntamento hard viene soltanto spostato all’autunno, quando il governo in carica (questo oppure uno “tecnico”, in attesa di nuove elezioni) dovrà affrontare l’ostacolo delle “raccomandazioni comunitarie”: una riduzione dello 0,6% del disavanzo strutturale (proseguendo il trend ormai ventennale di “avanzi primari” che non sono serviti a ridurre il monte del debito) e un taglio alla spesa pubblica di un altro 0,1%.
Lo ripetiamo dal primo giorno: questo non è un governo “anti-europeista”, ma solo “diversamente europeista”. Fa quel che gli viene ordinato, esattamente come quelli precedenti; ma strepia come se stesse “resistendo”, anzi “vincendo” sui diktat europei.
Chiacchiere e distintivo, violento coi deboli e servile con i forti. Tutto qua.
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