Diciotto anni di carcere non sono pochi. Danno l’idea di un reato grave: devi aver fatto qualcosa di grosso, per meritarti diciotto anni. I dodici, tredici, quattordici anni di condanne comminate ai manifestanti del G8 di Genova, ad esempio, furono commentati come “pesanti sentenze”.
Una pesante sentenza per un reato pesante.
E’ quindi stato abbastanza forte, almeno per chi segue la vicenda dall’inizio, conoscere l’entità delle richieste arrivate dal pm Giovanni Musarò nell’ultimo giorno di requisitoria del processo bis per la morte di Stefano Cucchi.
Che il pm di questo nuovo processo avesse intenzione di fare sul serio lo si era capito: il modo con cui aveva definito le modalità del pestaggio subito da Stefano (“pestaggio violento, da tifosi da stadio”), i tentativi di depistaggio, (“una partita con carte truccate”), il primo processo (“kafkiano”) indicavano una visione chiara dei fatti e sopratutto delle responsabilità.
Una chiarezza che è emersa in modo coerente anche nell’ultima requisitoria, che si è tenuta qualche giorno fa nell’aula bunker di Rebibbia: frasi e concetti, quelli espressi dal pubblico ministero, che hanno introdotto le pesanti richieste nei confronti degli imputati.
Diciotto anni dunque per i due presunti autori materiali del pestaggio, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di omicidio preterintenzionale.
Ma non solo: otto anni per il maresciallo Roberto Mandolini, per i reati di falso e calunnia. Tre anni e sei mesi per il carabiniere Francesco Tedesco (che con la sua confessione ha rivelato il pestaggio subito da Cucchi per mano dei due colleghi), sempre per falso. Per lui, accusato anche di omicidio, lo stesso pm ha sollecitato l’assoluzione, non avrebbe commesso il fatto.
Quarantasette anni e sei mesi di carcere, complessivamente, richiesti per quattro carabinieri. Per un reato di “malapolizia” sono tanti: a chi uccise Federico Aldrovandi andò meglio, ad esempio: quattordici anni in quattro. Nove anni e cinque mesi fu invece la durata della condanna di Luigi Spaccarotella, autore dell’omicidio di Gabriele Sandri. Due esempi che, numericamente, indicano quanto la pena richiesta dal pm Musarò sia importante.
“Non è un processo all’Arma ma a cinque carabinieri traditori” ha specificato il pm nel corso della sua requisitoria. Aggiungendo però un commento molto significativo: “Nella vicenda Cucchi i depistaggi hanno toccato picchi da film dell’orrore”. Se fisicamente sul banco degli imputati ci sono i cinque carabinieri materialmente coinvolti, nelle parole del pubblico ministero si legge chiaramente una forte censura all’operato di tutta la “catena di comando”: un generale, un colonnello, un tenente colonnello, un luogotenente, un carabiniere. E chissà quanti altri.
Nel processo Aldrovandi tre poliziotti furono condannati, per le azioni di depistaggio. Fu addirittura istituito un processo ad hoc, l’ “Aldrovandi bis”.
Stefano Cucchi fu fatto passare per un tossico morto in conseguenza delle sue scelte di vita sbagliate. Non era vero.
Eppure per affermarlo, e per scagionare i reali responsabili della sua morte, fu mobilitata una enorme quantità di gente. Che mentì.
A partire da un ministro della Giustizia Alfano, che come raccontato dallo stesso pm mentì in Senato, sulla base di false informative create dai carabinieri.
Nonostante le distinzioni (“non è un processo all’Arma”), se le condanne saranno così pesanti come quelle richieste, sarà difficile non percepirle riferite non solo alle azioni materiali di chi picchiò Stefano e di chi è accusato di aver mentito e calunniato. La condanna deve essere per tutto il sistema che mise in moto la macchina della menzogna: stiamo parlando di tutori dell’ordine pubblico, di militari. Dello Stato, stiamo parlando. Ha ragione Musarò: è stato un film dell’orrore. La questione che però deve essere chiara è che la vittima del mostro non è stata solo Stefano Cucchi: tutti noi siamo vittime di quello che è successo, e lo siamo ogni volta che lo Stato uccide e poi mente per difendersi. Alla faccia della democrazia e della tutela dei diritti della collettività.
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