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“Democrazia” carceraria: la scuola dell’Asinara e la repressione ordinaria

L’Asinara era un lager. L’Asinara era il supercarcere in cui lo Stato mostrava una delle facce più feroci della repressione.

L’Asinara era uno di quegli “speciali” facenti parte del cosiddetto “circuito dei camosci” – come lo chiamavano i prigionieri – in cui la vita dei detenuti, specie di quelli politici, appartenenti al movimento rivoluzionario comunista degli anni ’70, veniva trasformata in un inferno in terra.

Un inferno instaurato per ordine diretto del ministero della Giustizia e di quello degli Interni. E sovrinteso dal Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Botte, torture psicofisiche, isolamento, violazione dei diritti umani. Soprattutto, secondini scatenati, con il preciso compito di terrorizzare e violentare chi, per sua sfortuna, veniva destinato all’Asinara.

Colonia Penale al servizio del direttore Luigi Cardullo, durissimo con i detenuti e dolcissimo con le imprese (venne poi condannato a cinque anni di detenzione per gli appalti truccati nel carcere). “Il Condor”, come lo chiamavano le stesse guardie penitenziarie. Un funzionario esaltato, ai limiti del delirante, ringhioso, che poco aveva da invidiare agli aguzzini dei campi di concentramento nazisti.

Il degno e spietato esecutore di ordini altrettanto inesorabili, provenienti da quell’esimio boia in divisa, che risponde al nome del già citato Dalla Chiesa.

Il celebrato “eroe” della Repubblica Democratica, cui furono conferiti poteri extra ordinari e che nulla avevano a che vedere con la Costituzione nata dalla Resistenza, pur di sconfiggere quelli che, uno Stato palesemente terroristico, si ostinava a definire “violenza comunista” eterrorismo rosso”.

Un conferimento che trovava la sua più meschina e vile giustificazione nell’avallo complice del Pci di Berlinguer e Pecchioli. Un’infamia che grida ancora vendetta!

L'”eroe” Dalla Chiesa, pur di annientare il movimento rivoluzionario che aveva osato mettere sotto processo lo Stato stragista (da Piazza Fontana in poi), non esitò, infatti, ad utilizzare ogni mezzo anticostituzionale ed inumano. Violenza fisica e psicologica, torture, esecuzioni a freddo dei compagni. Come a Via Fracchia, dove furono trucidati quattro membri delle Br. Una vera e propria esecuzione a freddo, dopo l’irruzione.

L’Asinara era un carcere-isola, dove il tempo era sospeso. Dove non ci si poteva e doveva aspettare altro, dalla vita, se non la morte.

Dove la follia, almeno in un caso, rappresentava una via di fuga. Come accadde al povero Alberto Buonconto, dei Nuclei Armati Proletari, che all’Asinara dovette sopportare tutto l’assortimento delle sevizie concepite da Cardullo. Per poi suicidarsi, nel 1980, a casa della madre, dopo esser stato liberato.

Il Pollaio, Fornelli, il Bunker, questi i nomi, altamente evocativi – nella loro significanza iconica – delle cosiddette “sezioni”, dove i detenuti venivano stipati e trattati come bestie. Quei detenuti che le guardie accoglievano al canto di Faccetta nera, con largo uso di saluti romani, minacce e una buona dose di manganellate. Cose poi riviste alla luce del giorno, nella più recente Bolzaneto!

L’Asinara non era un carcere. Era l’ultima frontiera della degradazione e dell umiliazione umana. Una vergogna alla cui chiusura hanno contribuito le rivolte organizzate dai compagni delle Brigate Rosse, di Prima Linea, dei Nap, e dell’intero movimento rivoluzionario. Ma anche dai detenuti comuni. Una chiusura alla quale il Pci dell’insulso Berlinguer si oppose, in nome della ragion di Stato!

L’Asinara, dunque, venne chiuso, definitivamente solo nel 1998, anche se aveva dismesso la sezione “speciale” di Fornelli già nel 1981.

Ma L’Asinara ha fatto scuola. I metodi dell’Asinara proliferano e si diffondono, oggi, negli altri super carceri, dove i diritti dei detenuti vengono sistematicamente violati, senza più neanche una ragione razionale, un “nemico alle porte”.

Solo nel nome di un’eterna emergenza, divenuta, oramai, legislazione ordinaria. Una logica repressiva e securitaria che, da destra a “sinistra”, invoca la tortura come “normale” metodo di lavoro della Polizia. Che esalta il 41 bis, come elemento imprescindibile di deterrenza, di coercizione e di ricatto al fine “redentivo” dei prigionieri.

I quali, per poter liberarsi della disumana condizione del 41 bis (non dimentichiamo che la Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo ha condannato l’Italia proprio per l’estraneità di un simile dispositivo rispetto ai “diritti umani” ufficialmente difesi in Europa) sono costretti a genuflettersi dinanzi al Giudice, quale supremo intercessore della divinità Statale e delle ragioni inappellabili del Potere. Mostrandosi, ovviamente, “pentiti”. E il pentimento più sicuro, si sa, passa per le vie dell’infamia. Della delazione e del tradimento.

Solo così, si può accedere alla tanto agognata assoluzione. Metodi da Santa Inquisizione, altro che democrazia moderna!

Una logica vendicativa che esige il carcere a vita e l’ergastolo ostativo (anch’esso bocciato dalle certo non tenere istituzioni europee). La punizione corporale più invasiva e la condanna più cruenta. E la negazione postuma finanche del diritto di parola!

Senza nessuna pietà per quell’individuo, per la tutela degli inalienabili diritti civili del quale le democrazie liberali dicono di ergersi ad argine contro ogni forma di sistema che, si suppone, ne violi i superiori principi. A partire dagli odiati sistemi socialisti e di ispirazione marxista!

Lo Stato borghese, insomma, quale ente supremo, gode della proprietà privata del soggetto in custodia e ne dispone come meglio crede. Fino allo stupro dell’anima e all’amputazione della sua intelligenza.

Orbene, i metodi dell’Asinara, la violenza continua e metodica da parte delle forze di polizia penitenziaria – ma ormai anche di qualunque comune celerino – non sono solo una prerogativa dei cosiddetti carceri speciali.

Violenze, abusi, torture, violazioni dei diritti elementari, si verificano regolarmente, in tantissimi istituti di pena italiani, in caserme e commissariati (come ha certificato la vicenda di Stefano Cucchi).

Basti pensare al carcere napoletano di Poggioreale, e alla sua “Cella Zero”, dove quotidianamente le guardie e i Gom (gruppo di polizia penitenziaria di assalto, voluto da un altro sedicente comunista, l’ex titolare del dicastero della Giustizia, Oliviero Diliberto!) consumano abusi e violenze ai danni dei detenuti.

D’altra parte, ancor oggi, i direttori come lo spietato Cardullo non sono certo un’eccezione.

Mentre fuori dalle galere, il popolo – esacerbato da un contesto politico, sociale, economico in completo sfacelo – viene sempre più eccitato alla vendetta ed istigato ad un giustizialismo di tipo punitivo, che ricorda i pubblici supplizi inferti ai reprobi nel corso del Medio Evo.

Ovviamente, come sempre, a pagarne il conto sono i più deboli, socialmente ed economicamente. I dannati della terra.

Proletari e disperati di tutti gli strati sociali più miseri. Capri espiatori, grazie ai quali la buona e pia borghesia, cattolica e reazionaria; ma anche l’eticissima “sinistra” laica e radicale – che da anni ha immolato il suo “blocco sociale” sull’altare della legalitarismo astratto – possono sfogare ed esorcizzare le loro frustrazioni, il loro disagio, le loro paure. In nome della loro imprescindibile necessità di sicurezza e tranquillità.

Un tempo, il movimento rivoluzionario comunista, con le sue Commissioni Carceri, vigilava su simili abusi, li denunciava e contrattaccava.

Si costituiva il Movimento dei Proletari Prigionieri. Si distruggevano carceri come Palmi, Trani, Badu ‘e Carros, Fossombrone, Cuneo. Si organizzavano sane evasioni di massa!

Oggi, le compagne e i compagni detenuti, e tutti i proletari piegati dal giogo di un sistema che prima li emargina socialmente, poi li rinchiude ed infine li stupra moralmente e fisicamente, sono lasciati, purtroppo, per la maggior parte dei casi, al loro destino e alla loro solitudine.

In balia di un regime “democratico” che, con i suoi sgherri e i suoi fedeli servitori, ne gestisce, ne penetra e ne condiziona le vite, fino a cancellarne l’intera esistenza.

Sgherri e servi di un regime e di un sistema implacabile, freddo e iperturbabile – come le “leggi del Profitto” che ne determinano l’essenza – che agiscono come il Custode della Legge di Kafka. Come i giudici e i funzionari de “Il Processo”. Come Il dio de ” Il Castello”. O come la macchina infernale di “Nella colonia penale”.

Lì sprofondando i “reprobi” per definizione, nell’enigma di una colpa sociale senza possibile redenzione, al di là di qualunque comprensibile motivazione.

Irrogando pene e condanne, con la freddezza distaccata derivante dalla presunta superiorità etica della norma.

Oppure, come l’Essere Supremo, padrone del Castello, distante, inarrivabile e inconoscibile, sogghignando beffardi – dall’altezza della loro supposta condizione di istituzione “divina” – per l’angoscia provocata e instillata in chi è costretto a vivere, non certo per sua scelta, nelle più squallide condizioni di miseria e di affanno umano. Alle quali, sia ben chiaro, non si dovrebbe neanche ribellare; ma semplicemente piegare, con cristiana remissività.

Pena, altrimenti, la profanazione della carne, su cui incidere, in eterno, il peccato di cui ci si è resi colpevoli!

Tale è il senso della sorveglianza e delle punizioni, esercitata l’una e comminate le altre, dalle istituzioni pseudo democratiche dell’Occidente liberale e dominato dal libero mercato.

Istituzioni il cui compito principale è la tutela della normalizzazione sociale, la repressione del conflitto – in ogni sua articolazione possibile – ed il quieto scorrere della vita della “maggioranza silenziosa” e delle “persone perbene”. Il cui atteggiamento remissivo non può e non dev’essere turbato.

Altrimenti, il rischio è che si sgretoli l’intera impalcatura di quella “falsa coscienza” ideologica su cui regge l’ intero sistema capitalistico. Un sistema antidemocratico per sua naturale inclinazione. Un sistema il cui unico Dio è il denaro. L’uomo ridotto a merce o a scarto produttivo da gettare nelle discariche carcerarie ne è solo la più logica e immediata conseguenza!

Un sistema al quale si sono piegate, da anni, anche le sinistre istituzionali. Che, sul versante della sicurezza e della stretta repressiva, poco hanno da invidiare, ormai, al più truce reazionario para fascista in circolazione.

Basti pensare, per andare indietro nel tempo, come già si diceva prima, al Pci di Pecchioli e Berlinguer. O, per venire ad epoca più recente, al Pd e a Minniti.

La cui ineffabile norma sul “decoro urbano” resterà negli annali del diritto italiano come una gemma delle più invereconde politiche anti-proletarie e contro i poveri partorite dall’Italia Repubblicana!

Un tempo, circa quarant’anni fa, contro simili politiche, si levava alta la voce del movimento rivoluzionario. Fuori e dentro le carceri.

Si stagliavano, furenti e schiumanti di rabbia, i cortei della classe operaia, del proletariato metropolitano, degli studenti e dei dannati della terra.

Il cielo del Dio kafkiano, borghese e vendicativo, veniva preso d’assalto con le armi in pugno. Il sogno della rivoluzione comunista sembrava lì, ad un passo. Il sogno di una società libera e giusta si poteva toccare con mano. Una società equa e senza padroni.

Soprattutto, senza le carceri dei padroni!

Nell’ottica rivoluzionaria – mi sia consentito dirlo, assumendomi tutte le responsabilità di questa mia affermazione – la lotta armata sia assunse il colìmpito di colpire i funzionari che tiravano i fili del sistema carcerario italiano.

Funzionari come Girolamo Minervini (Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena) o come Riccardo Palma (Responsabile dell’edilizia carceraria, alla stessa Direzione Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena) vennero in momenti diversi uccisi in quanto responsabili operativi di un sistema carcerario che faceva dell’abuso, della violenza gratuita, delle vessazioni psichiche e delle sevizie corporali un metodo coercitivo. Una prassi di lavoro. In linea con uno “stato di Polizia”. Non certo con le pretese velleità democratiche di un’ Italia che, da sempre, è sedotta dal mito e dal fascino oscuro del fascismo. Specie in ambienti questurini.

La morale imposta dai vincitori dice che quegli omicidi furono “atti efferati”. Ma efferate erano anche e soprattutto le stragi che lo Stato nel frattempo compiva, con la collaborazione di mafia e neofascisti, e in cui trovavano la morte cittadini -quelli sì – effettivamente innocenti.

Efferate erano le torture e le violenze che si perpetravano nelle carceri, dove vigevano condizioni ai limiti dell’umanità. E dove coloro che si opponevano a quella deriva stragista e autoritaria, venivano rinchiusi e seviziati. Ieri come oggi, del resto!

Erano quelli, gli anni in cui gli Usa e il Capitale internazionale procedevano, speditamente, alla ristrutturazione del lavoro e dei mezzi di produzione, quale fonte primaria del loro guadagno.

Erano gli anni in cui prendeva il via quella finanziarizzazione neoliberista dell’economia e della produzione che, negli anni novanta, dopo la caduta dei regimi socialisti, troverà nuove fette di mercato su cui imporsi, fino ad affermare quel dominio globale della finanza in cui siamo immersi attualmente. Ben oltre la gola.

Erano gli anni in cui gli Stati Uniti e le élites politiche ed economiche dell’Occidente, utilizzavano, come laboratorio per regimi autoritari, l’ America Latina.

I Pinochet in Cile, i Videla in Argentina, gli Stroessner in Paraguay, i Castelo Branco in Brasile, i Somoza in Nicaragua, il maggiore D’Aubuisson in El Salvador, avevano il compito di affogare nel sangue l’avanzata di qualunque forza marxista o rivoluzionaria tentasse di affermarsi in Sud America. Con il preciso obiettivo di favorire le multinazionali americane e di instaurare la dottrina ultra liberista e monetarista di Morgan Friedman e dei Chicago Boys. Cui facevano da numi tutelari la Cia e il Fondo Monetario Internazionale.

In Italia, alcuni tentativi di colpo di stato, di chiara matrice anticomunista, furono evitati solo per ragioni di opportunità politica, riferibile al quadro internazionale.

Il movimento rivoluzionario, armato o meno, reagì colpo su colpo, ad ogni latitudine. E in Italia, forse, più che altrove.

Per quindici anni, il movimento comunista e la Lotta Armata tennero in scacco la Repubblica, prima di venire distrutti dalla feroce repressione di uno stato a guida democristiana, i cui fili, pur tirati da Washington, trovavano acquiescenti marionette anche nel Pci.

Le galere e le bare seppellirono un’intera generazione insorgente contro il sistema iniquo del capitale.

Oggi, quel Capitale, divenuto globale, seppur in evidente difficoltà, dopo l’illusoria fine della storia e la scorpacciata famelica consumata ai danni di un mondo che si voleva ridurre ad un immenso mercato a cielo aperto -sui banchi del quale anche la vita umana potesse essere servita come merce- tenta di affondare ancora una volta, una volta di più, i suoi artigli e i suoi denti aguzzi, nella carne del proletariato internazionale. Nella pelle dei popoli più fragili e poveri.

Come un animale morente si dimena, tentando di azzannare tutto e tutti, così l’imperialismo yankee e quello europeo, le loro borghesie finanziarie e le loro lobby politiche, tentano di riaffermare il proprio dominio sul Sudamerica, in Africa, in Medio Oriente e sulla cinta dei paesi del Mediterraneo.

Conflitti regionali e guerre economico-finanziarie infiammano il pianeta. Mai, come in questi giorni.

Il proletariato, i ceti subalterni, le classi tartassate e i popoli più esposti alle mire dell’ imperialismo occidentale, si ribellano ovunque. Anche nella Vecchia e stanca Europa.

Allora, quei laboratori autoritari, in cui si sperimentavano repressione e metodi dittatoriali, tornano di moda. Da sud ad est. Ed anche in Italia. Dove la vite securitaria si sta stringendo sempre più attorno a chi prova, seppur con mezzi e forze limitate, a dar di nuovo voce ai ceti subalterni e a far rinascere il conflitto.

Negli anni ’70 e ’80, un’intera generazione si ribellò, attingendo al valore della violenza di classe e, in taluni casi, passando alla Lotta Armata. Secondo molti fu un errore tattico, politico, di analisi e strategico. Secondo molti fu avventurismo. Noi non lo crediamo. Seppur le ragioni di quella cocente sconfitta vanno ricercate e capite con l’obiettività e il distacco che permette il tempo. Per non inciampare negli stessi errori di allora. E per far tesoro di quanto di positivo quell’esperienza di insorgenza sociale può aver lasciato.

Sta di fatto che, nel bene e nel male, quei compagni e quel movimento ci provarono a scardinare le leve del potere capitalistico, tenute dal partito/stato democristiano.

Quel partito e quello stato, con la collaborazione del Pci, reagirono con la violenza che è propria della razza padrona. Stracciando la Costituzione e implementando leggi speciali, carceri speciali, consentendo torture e abusi nelle galere, approvando quell’articolo 90 che sarebbe stato, poi, propedeutico all’introduzione del 41bis.

E ancora, concedendo poteri extra ordinari alle forze di polizia, favorendo metodi criminali e finanche arrivando ad emettere vere e proprie sentenze di morte, eseguite mediante l’assassinio di compagne e compagni disarmati.

Oggi, le condizioni per un conflitto tanto duro non ci sono. Men che meno per una fuga rivoluzionaria in avanti o addirittura di tipo armato. Non vi sono le condizioni e i rapporti di forza ci vedono inferiori di numero e di mezzi.

Potranno mettere in campo tutto l’ armamentario repressivo di cui sono dotati, potranno sbatterci in galera uno ad uno – le cronache di questi giorni ci offrono svariati esempi di repressione giudiziaria e sbirresca – ma noi non molliamo. Non chiniamo la testa, di fronte al manganello del celerino, di fronte alla violenza poliziesca o di fronte alle minacce e alle condanne emesse dal potere giudiziario.

Non ci è consentito dalla nostra storia rivoluzionaria. Non ci è consentito dalle compagne e dai compagni che ci hanno preceduto e che non si sono piegati, pur di fronte alla prospettiva di ergastoli plurimi e di ripetuti abusi e torture. Non ci è consentito da coloro che ancora sono reclusi nelle gabbie dei padroni. Non ci è consentito dal sangue proletario che macchia le strade di questo paese.

La Scuola dell’Asinara non vincerà. Non vincerà la repressione.

La talpa ha ancora tanto da scavare. E prima o poi, quel tunnel per la libertà, diventerà una voragine. Aperta verso il sole!

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