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Taranto. “Questa fabbrica uccide”. Il grido di operai e abitanti sull’Ilva

Non è l’Ilva che sta a Taranto, è Taranto che sta dentro l’Ilva. La città occupa quasi mille ettari, la fabbrica mille e cinquecento. E questo dà subito le dimensioni del problema con cui una comunità di 200mila persone, tra operai e abitanti della città sta facendo i conti da anni e che adesso richiede soluzioni non più rinviabili.

Che il problema sia urgente, sentito, lacerante lo si comprende e trova conferma nella sala piena all’assemblea aperta promossa giovedi sera da Potere al Popolo a Taranto. Ci sono gli operai dell’ex Ilva, cittadini, associazioni ambientaliste.

Lo spirito dell’iniziativa lo riassume in apertura Teodoro Antonucci di Potere al Popolo di Taranto: “Non vogliamo più essere costretti a decidere tra lavoro e salute, a questo ricatto non ci stiamo più. Stiamo perdendo tempo a dividerci su piccoli punti, mentre dobbiamo unirci, questa battaglia di Taranto si può vincere solo se è unitaria, tra operai e cittadini”.

Tocca poi a Giorgi Cremaschi (portavoce nazionale di Pap) affermare che sulla vicenda Ilva in ballo ci sono interessi diversi e contrapposti, da una parte il ricatto – non solo a Taranto – di una multinazionale come ArcelorMittal che “vuole rendere un dato di fatto licenziamenti, impunità penale e diritto extraterritoriale, dall’altro i diritti al lavoro e alla salute previsti dalla Costituzione e che non possono essere usati uno contro l’altro”. Cremaschi chiarisce di sostenere la soluzione della nazionalizzazione della ex Ilva, perché le soluzioni di mercato e fondate sul raggiungimento del profitto privato la soluzione che chiedono operai e cittadini non la contemplano proprio. Lo Stato mette i soldi solo per tenere qui le multinazionali, a questo punto meglio usarli per mantenere l’occupazione, bonificare il territorio, chiudere e riconvertire le produzioni mortali.

Di avviso contrario è invece Alessandro Marescotti, ambientalista e storico attivista di Peace Link, secondo cui l’Ilva è un “climate monster” conclamato. E’ il maggiore produttore di Co2 a livello nazionale. Se scende sotto le 7 milioni di tonnellate di produzione va in perdita. Quindi è inutile parlare di nazionalizzazione. Meglio sarebbe chiudere e puntare su altri settori come il turismo in cui potrebbero agire quelle che Marescotti definisce “esternalizzazioni positive”. In conclusione Marescotti ha affermato che Taranto merita un risarcimento per tutto quello he ha subito. E’ un intervento che suscita borbottii e contenuti dissensi in sala, anche tra alcuni operai seduti vicino a chi scrive.

Francesco Rizzo, delegato Usb e quadro operaio storico dell’Ilva, mette i piedi nel piatto della discussione affermando un concetto pesante come un macigno: “non si può più tenere  aperta una fabbrica che uccide, sia chi ci lavora sia chi ci abita intorno”. La vicenda dell’Ilva di Taranto è il fallimento di una intera classe politica degli ultimi decenni. Anche lui sostiene la tesi della nazionalizzazione per “pianificare la chiusura delle produzioni nocive e la riconversione garantendo l’occupazione degli operai”.

La responsabile del tavolo ambiente di Potere al Popolo Ilaria Boniburini sottolinea come a Taranto abbia trovato un livello altissimo di conoscenza sui temi ambientali e dell’inquinamento, ma anche le contraddizioni con cui fare i conti non sono solo quelle tra lavoro e ambiente. C’è la mancata redistribuzione della ricchezza, quella dei territori devastati dal consumo di suolo. Ma Ilaria è anche veneziana e, replicando a Marescotti, racconta cosa significa vivere in una città in cui il turismo di massa ha rivelato il suo carattere devastante da ogni punto di vista.

Carla Corsetti, giurista e del Coordinamento nazionale di Potere al Popolo punta dritta su due questioni: lo stretto nesso tra nazionalizzazione e controllo popolare e l’ipoteca esercitata dai Trattati europei sulle soluzioni possibili e necessarie per salvaguardare l’economia del paese.

Per Margherita Calderazzi dello Slai Cobas sarebbe invece un errore chiedere la chiusura della fabbrica perché questo indebolirebbe gli operai. Su questa tesi, chiusura si chiusura no, interviene con straordinaria efficacia un operaio dell’Ilva che, spiega, “si fa il segno della croce ogni mattina che entra a lavorare in fabbrica perché questa ormai cade a pezzi e si rischia di morire ogni giorno”. Spiega che lavora all’Ilva dal 1996 e che non ha mai visto manutenzione né ordinaria né straordinaria. Il ricatto, dice l’operaio, è il salario, è il fatto che per ricevere quello stipendio uno sia disposto a fare tutto, a rischiare la vita, ad ammalare la gente. Questo ricatto va spezzato.

Michele Franco di Potere al Popolo di Napoli, è intervenuto indicando l’esigenza di affrontare sul piano politico complessivo le varie crisi industriali – a partire dalla Whirlpool di Napoli – con cui fanno i conti migliaia e migliaia di lavoratrici e lavoratori e che girano a vuoto nei tavoli con il governo. C’è l’esigenza di una proposta che affronti la questione e la faccia diventare un tema dell’agenda politica rimettendo in campo soluzioni come le nazionalizzazioni, strutture pubbliche che rilevino le aziende in crisi e salvaguardino l’occupazione piuttosto che regalare soldi alle multinazionali che vengono e poi scappano lasciando cimiteri industriali.

Altri interventi dal pubblico segnalano le molte ed ormai insopportabili contraddizioni ambientali di Taranto. Lo denuncia con dovizia di particolare una giovanissima attivista di Friday For Future. “Taranto è una città con due Mari e con tre Mali : Ilva, Eni, Cementir” dice un abitante. Lo conferma un altro operaio dell’Ilva intervenuto subito dopo.

La discussione su tutto questo prosegue oggi con l’assemblea operaia nazionale convocata dall’Usb a Taranto e domani con le manifestazioni convergenti di Friday For Future e lavoratori convocati dallo sciopero dell’Usb. Il tentativo di ricomporre le contraddizioni lavoro, salute, ambiente se ha una possibilità di essere sperimentato concretamente non essere che a Taranto, qui è il cuore del problema.

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