Ho deciso di trascrivere le pagine di una specie di diario che avevo cominciato a scrivere in carcere. Non molte in verità, presto sostituite dalle risposte alle lettere che, nonostante le censure, mi arrivavano a decine, ogni giorno (quante non saranno arrivate, vista l’improbabilità dei tempi e degli spazi?).
Fogli sparsi che narrano un’esperienza diretta, vissuta con rabbia e tristezza, ma senza genuflessioni. Solo tre mesi, ma sufficienti a provare concretamente che cosa sia il carcere: un’istituzione totale fondata su principi non certo di giustizia, ma di repressione e di vendetta, controproducente per qualsiasi volontà di riscatto. Una realtà non da riformare, solo da abolire.
In questi tempi di epidemia le carceri dimostrano appieno la loro natura: persone stipate in ambienti angusti; condizioni igienico-sanitarie del tutto precarie; donne e uomini costretti ad aspettare indifesi il male che avanza.
Intorno, oltre la disperazione dei familiari, c’è solo l’arbitrio di un potere il quale viola le regole, peraltro risibili, che si era dato.
Pesa il silenzio sepolcrale degli indifferenti, coloro che da sempre, volutamente ignorano l’inferno di carceri e CPR, i drammi degli “invisibili”, cacciati inesorabilmente a morire lontano perché la loro presenza non guasti il“decoro urbano”.
Dunque, che le parole diventino pietre, materia vivente per la barricata della primavera che dovrà venire.
30 dicembre 2019
Tradotta in carcere. Ero preparata, ma il tuffo al cuore c’è comunque.
La volante dei carabinieri che mi dovrebbe portare alle Vallette percorre i cinquecento metri di via San Lorenzo impiegando ore…non so dire quanto, perché in tali circostanze si perde la nozione del tempo.
Al mio cancello sono accorse le donne e gli uomini del Movimento NO TAV: le mie sorelle, fratelli, nipoti. Mi accompagnano, passo dopo passo, fino alla statale, con l’affetto e la condivisione di sempre, nonostante il cordone di carabinieri che tenta di tenerli lontani.
Non è facile lasciare la quotidianità di casa mia, le creature care che allietano la mia vita.
Nella sera che avanza, vedo accendersi le luci di Natale, illuminarsi ad una ad una le finestre a contrastare il buio.
Al finestrino si affacciano i volti buoni, risuonano le voci dei tanti decisi a non abbandonarmi…ma l’auto, dopo uno scatto, prende velocità.
Da quel momento, un viaggio velocissimo verso la periferia cittadina.
Ecco le luci della centrale IREN, ecco il carcere acquattato nella notte. Nei pressi dei cancelli scorgo un presidio su cui sventolano le bandiere NO TAV, tenuto a bada da un drappello di agenti in assetto antisommossa. L’auto passa veloce, anonima.
Si aprono le porte del carcere. Mentre si passano le consegne, un guardiano borbotta ridacchiando “a sarà dura”.
Ecco i locali della matricola. Foto segnaletiche e impronte digitali. sequestro dei documenti e degli effetti personali.
Perquisizione corporale: è umiliante finire nuda davanti a due ragazze giovani in divisa, più umilianti ancora le flessioni su un pavimento a specchio… Fa freddo, protesto….”prima ti sbrighi, prima hai finito!”
Perquisizione dei bagagli: questo passa questo no. Non passa il cappotto, neppure la sciarpa; niente bagno schiuma, dentifricio, deodorante. La borsa viene sostituita da un sacco nero, in cui depongo i libri, un quaderno, una penna, qualche indumento….
Ancora un tratto di cortile fino al padiglione femminile. Una rampa di scale… il primo piano… la “sezione nuove giunte”…
Tutto è silenzio. Percorro un corridoio che mi sembra lunghissimo, tra due file di blindi chiusi, contraddistinti da numeri. Il numero otto: sono arrivata. Sferragliare di chiavi, apertura e chiusura del cancello.
Ora ho una “concellina”; la vedo a malapena sotto la luce blu, spettrale. E’ gentile: si offre di darmi una mano a preparare la branda. Letto a castello, pagliericcio inferiore; materasso di spugna, cuscino duro come un sasso.
La cella è un cubicolo, sbarre e reti all’unica piccola finestra. E’ difficile prendere sonno, così sommersa dalle emozioni.
Ma ecco che, ad un tratto, come una voce amica, mi giungono i botti e le luci dei fuochi d’artificio che il movimento NO TAV, giunto fin qui sotto le mura del carcere, lancia in cielo per dire che non sono, non siamo soli.
Poco lontano da me, ai blocchi maschili, stanno Giorgio, Mattia, Luca: anche tra queste mura c’è la mia Valle, forte, bella, a testimoniare che la giustizia è altra cosa rispetto a quanto stiamo subendo e che non ci arrenderemo mai.
Mi scopro serena, quasi felice, pronta al giorno che verrà.
*****
Storie. Le mie compagne mi raccontano di sé o di altre storie. Dal buio dell’umiliazione non emerge mai una vicenda completa: il silenzio è anche un modo per proteggersi, salvaguardare la propria dignità rispetto all’ annullamento della persona che il carcere, sistematicamente, persegue.
La perquisizione corporale che mi hanno fatto all’ingresso, pur così umiliante, è “ all’acqua di rose”, c’è chi ha subito di peggio: l’ispezione anale, consueta, ma particolarmente umiliane per chi è sospettato di avere in pancia ovuli di droga.
Mi si racconta di una ragazza che, dall’Africa, ha girato l’Europa, poverissima corriera di ovuli di cocaina per i party dei ricchi intoccabili. Ha lasciato a casa la madre e le sorelle: a loro provvede lei, con quella pancia piena di ovuli…
Arrestata, è sola: avvocato d’ufficio, scomparsi e sicuri nella loro impunità i ricchi sfruttatori. Le resta il carcere, la magra consolazione dei canti ad un dio disattento, qualche mese da inserviente scopina, la tenacia di tenersi pulita tra muri che trasudano sporcizia.
I quattro soldi che ricava dai lavoretti carcerari (pochi, sfruttati, ma molto ambiti da chi non ha niente), detratte le spese ,mensilmente conteggiate, per il mantenimento in carcere, li manda alla famiglia, in qualche villaggio africano, di cui, a volte, racconta. Un suo sorriso gioioso a chi ha scelto come “zia”, un suo festoso saluto nei momenti bui sono un regalo impagabile….Bisogna resistere e raccontare.
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