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Recovery Plan. Quante risorse per il Mezzogiorno?

In questi ultimi mesi, complice il cambio di governo e l’avvento della pandemia, il tema del Mezzogiorno e dei diritti dei suoi cittadini sembra essere scivolato in fondo alle priorità dell’agenda politica del paese.

L’autonomia differenziata era stata uno dei principali temi di scontro all’interno dell’esecutivo “giallo-verde”, probabilmente una delle cause nodali della fine di quell’esperienza governativa, con l’avvento del governo Conte-Bis, nonostante le condizioni generali non siano mutate di una virgola, la questione meridionale è sparita di nuovo dal dibattito pubblico. Eppure mai come in questo momento le disuguaglianze territoriali e l’aumento della povertà, specialmente legata ai working poor, dovrebbero preoccupare non poco l’azione politica di chi è al governo.

L’ultimo accenno alla questione è stato la presentazione del Piano- Sud 2030 dello scorso febbraio, annunciato con una conferenza stampa congiunta dal premier Conte, dal Ministro per il Mezzogiorno Provenzano e delle Scuola Azzolina a Gioia Tauro. Da allora le cose nel mondo e nel paese sono cambiate radicalmente con l’avvento del Covid-19, i meccanismi economici su cui si basavano le certezze di capi di governo e ministri delle finanze sono crollate nel giro di pochi mesi, mettendo probabilmente fine (almeno sul piano europeo) all’austerità cosi come l’abbiamo conosciuta negli ultimi quindici anni.

SI POTREBBE TRANQUILLAMENTE AFFERMARE CHE IN MOLTI CASI LA QUALITÀ DEI SERVIZI PUBBLICI E LA CAPACITÀ PRODUTTIVA DELLE REGIONI SETTENTRIONALI SIA STATA GARANTITA AUMENTANDO LA PRESSIONE FISCALE NEL MEZZOGIORNO E TAGLIANDO LE RISORSE.

Quello che però sembra non cambiare mai, anzi continua inesorabilmente a peggiorare, è lo squilibrio tra regione del nord e del sud nel nostro paese, soprattutto come la questione meridionale venga affrontata o meglio non venga affrontata e ridotta a “lamentela” di chi vuole vivere di assistenzialismo nei confronti della parte sana e produttiva.
Tutto questo nonostante che negli ultimi anni diversi studi autorevoli, dalla Svimez fino ai rapporti Eurispes, abbiano ampiamente dimostrato che questa narrazione non solo non corrisponde alla realtà ma si potrebbe tranquillamente affermare che in molti casi la qualità dei servizi pubblici e la capacità produttiva delle regioni settentrionali sia stata garantita aumentando la pressione fiscale nel mezzogiorno e tagliando le risorse. Tant’è che oggi è sempre più diffusa, anche nei circuiti più distanti dalle rivendicazioni identitarie e autonomiste, la consapevolezza che in Italia non ci sia una garanzia di eguali diritti di cittadinanza tra chi nasce nel sud e chi nasce nel nord del paese, con la bilancia che pende inesorabilmente in favore di questi ultimi.

Come era prevedibile anche nella crisi economica scatenata dalla Pandemia, questa tendenza è tutt’altro che invertita, andando a guardare la distribuzione degli aiuti economici messi in campo per sostenere imprese e famiglie durante questi ultimi sei mesi, si può notare come solo il 30% del totale sia arrivato al sud a fronte di una popolazione del 34%, un’economia già in recessione che non era ancora riuscita a recuperare i livelli di crescita pre-2008; mentre il centro-nord aveva visto una variazione del PIL in positivo nell’ultimo anno dello +0,3%, e sostanzialmente il ritorno ai livelli occupazionali e di crescita di circa dieci anni fa.

In questo quadro la commissione UE ha deciso di assegnare circa 200 miliardi di euro all’Italia per far fronte all’emergenza sanitaria ed economica, risorse che sono assegnate sulla base delle caratteriste dei paesi dell’unione, dei loro squilibri interni e sul gap che molte regioni, specialmente nell’Europa meridionale, hanno rispetto alla media europea in termini di sanità, crescita, occupazione, digitalizzazione, politiche ambientali e diritti di cittadinanza più in generale.
Non è chiaro come saranno distribuite queste risorse a livello regionale, l’Italia presenterà il 15 ottobre a Bruxelles diversi progetti, per un finanziamento pari quasi al doppio della cifra che oggi è messo a disposizione, l’Unione Europea dovrà valutarne la finanziabilità e la coerenza con le linee guida, che si basano sulla coesione territoriale, l’aumento dell’occupazione con particolare attenzione a quella femminile, le politiche ambientali e la digitalizzazione dei diversi paesi.

Verrebbe naturale pensare che in paese che si dice unito, in una Repubblica che all’articolo 3 della sua Costituzione si promuove di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, queste risorse vadano investite nel ridurre le disuguaglianze che ancora invece esistono, sia dal punto di vista territoriale che da quello di classe. Cosa che sembrerebbe concordare a pieno con le linee guida espresse dalla stessa commissione europea.

Visti i grossi squilibri territoriali ancora esistenti, che mettono fortemente in discussione l’accesso alla cittadinanza per i cittadini meridionali, sarebbe logico che la maggior parte di queste risorse fosse investita nel sud del paese. Anche perché se sono stati accordati 200 miliardi di euro, non è certo per “meriti” o grazie alla presunta capacità produttiva delle regioni locomotiva, queste risorse sono state assegnate in base ai record negativi che molte regioni del sud esprimono in termini di occupazione, sviluppo ecc.
Basti pensare che la Campania e Calabria sono maglia nera in Europa per le percentuali di occupazione femminile, solo 1 donna su 3 è occupata nel Mezzogiorno mentre in Europa l’occupazione femminile supera il 60% e la media italiana è del 52%. O potrei portare ad esempio l’esposizione alla povertà di chi invece ha un lavoro, ancora una volta le regioni del sud sono ai primi posti, il 26% degli occupati nel mezzogiorno è a rischio povertà. (fonte rapporto Svimez 2019).Insomma un quadro critico aggravato dalla storica assenza d’investimenti e di politiche per il Mezzogiorno nel nostro paese, trattato spesso come una colonia da cui attingere solo forza lavoro a basso costo e dover far confluire le merci che si producono nelle regioni settentrionali.

Invece come al solito parte l’assalto alla diligenza, con il Partito Unico del Nord che prova ad approfittare della situazione per ribaltare il tavolo a proprio favore, cosi iniziano gli attacchi al sud definito “rivendicazionista” da Micossi di Assonime che ritiene che il mezzogiorno abbia più risorse di quelle che riesce a spendere (!!) o l’uscita di Zingaretti qualche giorno fa sui quotidiani nazionali nella quale afferma che “al Mezzogiorno andrà il 34% del Recovery Plan”, manco ci stesse facendo un favore.
Forse il capo politico del PD confonde il livello di spesa ordinaria per il sud — che dovrebbe essere il 34% di ogni investimento pubblico essendo i meridionali il 34% della popolazione nazionale, che né il suo governo di oggi né quelli precedenti sono mai riusciti a garantire facendo perdere alle regioni del sud e ai loro cittadini circa 60 miliardi di euro l’anno — con l’attribuzione delle risorse del recovery plan, che invece devono essere allocate sulla base degli squilibri economici e di mancata coesione territoriale preesistente: ovviamente, se applicassimo questa logica, al Mezzogiorno dovrebbe andare più del 60% delle risorse messe a disposizione dall’UE.

IL PARTITO UNICO DEL NORD CHE PROVA AD APPROFITTARE DELLA SITUAZIONE PER RIBALTARE IL TAVOLO A PROPRIO FAVORE

Siamo di nuovo di fronte ad un tentativo di saccheggio di risorse che non piovono dal cielo, ma sono assegnate per scopi ben precisi; intanto nessun governatore del sud e nessuna forza politica ha promesso barricate in difesa della Costituzione e dell’uguaglianza tra cittadini e cittadine dello stesso Stato.

Viene allora da pensare che se il Mezzogiorno e le isole siano sempre considerati un territorio da depredare, un’inutile zavorra che blocca lo sviluppo del paese e delle regioni più produttive, oggi che siamo tutti in Europa non sarebbe più coerente prendere strade diverse? Nella storia dell’Unione Europea abbiamo diversi esempi di unificazione e divisione statale di alcuni territori, la Repubblica Ceca e quella Slovacca o la Germania Federale.
Nel primo caso la separazione non è stata una dramma, non ha portato alla fame nessuno dei due territori anzi ha permesso uno sviluppo separato e coerente di ognuno di loro, se non ci sono le condizioni per stare insieme possiamo benissimo dividere il debito pubblico su base regionale e fare in modo che siano i diversi territori a trattare con l’Unione Europea rispetto alla distruzione dei fondi e sul loro utilizzo: sarebbe una scelta più onesta e rispettosa delle diversità. Se però si sceglie di essere un paese unito allora la Carta Costituzionale deve valere per tutti, non si può accettare che una bambina che nasce a Catanzaro parta con meno 4000 euro pro-capite d’investimenti pubblici rispetto a bambino che nasce a Modena.
Non possiamo continuare a vedere progetti per l’implementazione della Torino — Lione, per un valore di 1 miliardo di euro, mentre per muoversi all’interno della Campania i tempi di spostamento superano le 3 ore da un capoluogo di provincia a quello della provincia più vicina, l’alta velocità è ferma a Salerno, dove gli asili nido sono garantiti solo a 15 bambini ogni 100 e dove il reddito pro-capite è tre volte più basso rispetto a quello delle regioni del centro-nord.

La Germania negli anni ’90 ha messo in campo un vero processo di unificazione, nessuno si è scandalizzato quando enormi risorse state messe a disposizione delle regioni dell’est ex sovietico, per colmare i gap sociali ed economici, come succede invece in Italia ogni qual volta si spende un euro per il Mezzogiorno e le isole. Anche se oggi è possibile dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, che non c’è nessuna innata attitudine all’assistenzialismo o che le regioni del sud sia destinate al sotto-sviluppo, che queste sono vere e proprie fake news; c’è stata negli anni una deliberata acquisizione indebita di risorse che costituzionalmente sarebbero dovute essere garantite al Mezzogiorno e alle isole.

GLI ASILI NIDO SONO GARANTITI SOLO A 15 BAMBINI OGNI 100 E DOVE IL REDDITO PRO-CAPITE È TRE VOLTE PIÙ BASSO RISPETTO A QUELLO DELLE REGIONI DEL CENTRO-NORD.

Non si può continuare a vivere nell’ipocrisia, lasciatemelo dire, e nell’opportunismo di essere un solo paese quando si trattano le risorse del recovery plan o quando 200 mila laureati in 10 anni si spostano verso il nord garantendo forza lavoro qualificata a basso costo senza nessun investimento in formazione, mentre quando bisogna decidere di ridurre le disuguaglianze allora ognuno tiene la cassa per sé. Sarebbe molto più onesto farlo sempre e affrontare la questione dell’unità statale e territoriale senza ideologie e retorica.

Intanto agli abitanti del sud e delle isole toccherà lottare con le unghie e con i denti affinché queste risorse non siano scippate ancora una volta, consapevoli che non ci sono forze politiche o rappresentanti istituzionali che remeranno dalla nostra parte.
Come al solito ci toccherà rimboccare le maniche e lottare più forte di ogni pregiudizio.

Leggi l’articolo su ilsudconta.org

Alcuni dati sulle condizioni economiche e sociali in cui si trovano il Mezzogiorno e le isole oggi:

  • La pandemia Covid 19 arriva in un momento di recessione del Mezzogiorno, nel 2019 il PIL aveva avuto una variazione del — 0,2% rispetto a al + 0,3% del centro- nord.
  • Nel ventennio precedente nel Mezzogiorno c’è stato un calo degli investimenti dei settori: costruzione, macchine, attrezzature e mezzi di trasporto del — 33% a fronte del -15% del centro-nord. (Svimez)
  • Stesso discorso vale per gli investimenti in conto capitali della P.A., che tra il 2000 e il 2017, sono stati cosi distribuiti: 71% al centro-nord contro il 29% al mezzogiorno e alle isole, di questa quota (circa 10 miliardi l’anno, almeno per gli ultimi 5 anni) solo il 21% proviene da risorse ordinarie dello stesso il resto è garantito con risorse aggiuntive per lo più provenienti dall’Unione Europea. (Svimez)
    Lo Svimez calcola deficit di circa 100 miliardi di mancati investimenti al sud solo negli ultimi 20 anni.
  • Il mezzogiorno deve recuperare un gap d’investimenti da parte dello stato centrale che si riflette sulla qualità della vita e dei servizi degli abitanti del meridione, nel 2017 lo Stato Italiano ha speso 15.297 euro pro-capite per ogni cittadino del centro-nord e solo 11.929 euro ogni cittadino del sud, la forbice negli ultimi anni è andata sempre più divaricandosi. La spesa per il Mezzogiorno è stata tagliata dell’1% mentre per il centro Nord è aumentata dell’1,6%. (Eurispes 2020).
  • Il reddito medio delle famiglie meridionali è il 60% in meno rispetto a quelle del centro-nord. Nel Nord Ovest il reddito medio per abitante è di 22 mila 300 euro contro i 14 mila del sud. Questo porta una diretta conseguenza sulla spesa per i consumi per abitante, che va dai 20 mila euro per abitante per chi vive in Veneto o in Liguria, ai 13 mila euro annui per chi invece vive in Campania o Calabria. (Istat)
  • In termini occupazionali lo storico gap tra nord e sud si è aggravato negli anni attorno alla crisi finanziaria del 2008, specialmente in termini occupazionali. Oggi l’Istat stima che a causa della pandemia al sud si siano persi circa 300 mila posti di lavoro, lo stesso numero di posti persi tra il 2010 e 2014, che nel mezzogiorno non erano mai stati recuperati. Nel 2019 la disoccupazione nel Mezzogiorno (19,4%) continuava a essere 3 volte quella del Nord(6,9%).
  • La situazione più drammatica resta quella del lavoro femminile a sud, dove solo 1 donna su 3 risulta occupata a fronte di una media nazionale che supera il 50%, di queste solo il 62 % ha una laurea mentre la media nazionale è del 75% e quella europea dell’81%. Le 5 regioni meridionali sono tra le 20 regioni europee con il tasso più basso di occupazione femminile.
  • Il Mezzogiorno vede anche la maggiore concentrazione di working poor, il 26% degli occupati nel sud Italia è a rischio povertà.
  • Il 70% dei comuni Italiani in dissesto o pre-dissesto sono collocati nel mezzogiorno e all’oggi la perequazione del 100% del Fondo di solidarietà comunale non è garantita a dispetto della Costituzione. Con un’evidente carenza sul piano dei servizi alla cittadinanza nei comuni del sud dell’Italia. A questo va aggiunta la mancata applicazione dei Lep e il superamento del criterio della spesa storica, che ha generato enormi squilibri, nella ripartizione dei fondi sulla sanità tra regioni.
  • L’eredità dei divari del sistema scolastico è un’altra emergenza del Mezzogiorno. L’84% degli studenti meridionali non ha il tempo pieno nelle scuole primarie, altissime sono le quote di giovani che non possono accedere agli spazi mensa (81%) o a palestre nelle proprie scuole (61%).
    La quota per gli studenti del centro nord invece supera di poco il 50%. Più del 70% degli edifici scolastici dell’Italia meridionale non hanno la certificazione di agibilità, con enormi pericoli per la popolazione studentesca. Alle carenze strutturali vanno aggiunte delle vere e proprie assenze, nel mezzogiorno per ogni 100 bambini dagli 0–3 anni ci sono solo 11 posti di asilo nido, a fronte degli impegni presi dall’Italia nella conferenza di Barcellona del 1998 di portare questo numero a 33 posti per ogni 100 bambini.
  • Il sistema d’infrastrutture per i servizi di mobilità pone il Sud mediamente a un livello pari al 50% del valore medio UE.
  • Tutta questa situazione stimola inevitabilmente l’emigrazione, specialmente quella giovanile, tra il 2000 e il 2015 circa 2 milioni e mezzo di persone ha abbandonato le regioni del sud per cercare lavoro nel nord del paese o all’estero. Solo nei comuni con meno di 5 mila abitanti negli ultimi 15 anni sono scomparsi circa 250 mila abitanti, oltre al problema occupazionale, grava sulle aree interne il problema dell’assenza di servizi e d’infrastrutture (la rete internet adeguata), in Calabria la distanza dai presidi medici per alcuni comuni può superare anche i 50 km.
  • Nella fase della pandemia gli aiuti economici messi in campo dal governo sono arrivati al mezzogiorno solo per il 30% del totale a fronte di una popolazione del 34%. L’unica forma di sostegno per i redditi e i consumi delle famiglie meridionali è stato appunto il reddito di cittadinanza, che con una media di 500 euro per percettore è arrivato a quasi 700 mila famiglie meridionali.

 

 

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