Intervista a Fabrizio Tomaselli, ex dipendente Alitalia ed ex coordinatore nazionale di Usb. Autore di un racconto on line su Alitalia sul blog Oggisivola dal quale verrà presto pubblicato il libro “Sulle ali della dignità”.
D: Quando avete avuto contezza che su Alitalia era cominciata una operazione tesa al suo smantellamento come compagnia di bandiera?
R:Sono circa 20 anni che si procede in questa direzione. Diciamo che dai primi anni 2000 si è strutturato e consolidato un filo conduttore che prevedeva la privatizzazione, ma se risaliamo anche a qualche anno prima troviamo il vero snodo attraverso il quale interpretare le ragioni per le quali si è iniziata a percorrere questa strada.
Mentre le altre grandi compagnie si sviluppavano, compravano aerei e aumentavano voli e attività collegate, Alitalia è rimasta al palo, senza investimenti produttivi importanti, con lo stesso numero di aerei che poi pian piano sono iniziati anche a diminuire. È proprio la mancanza di investimenti la causa prima dei successivi decenni di crisi continua di Alitalia. Crisi ricorrenti alle quali si è risposto con qualche aiuto, qualche ricapitalizzazione limitata e insufficiente per lo sviluppo che sarebbe stato invece necessario e soprattutto con il ridimensionamento continuo che ha avuto il suo culmine nel 2008 con la privatizzazione berlusconiana attraverso l’intervento dei “capitani coraggiosi”, poi con Etihad e ora con l’amministrazione straordinaria aggravata dalla pandemia.
D: Quante persone lavoravano ad Alitalia e nell’indotto prima che iniziasse questa operazione? E quanti ne sono rimasti attivi?
R: Diciamo che un’Alitalia già ridotta all’osso prima della pandemia, quindi a fine 2019, faceva volare 118 aerei e il personale complessivo era poco più di 11.000 unità tra piloti, assistenti di volo, staff, manutenzione e handling. Se andrà in porto il ridimensionamento previsto con ITA si arriverà a circa la metà degli aerei ed a 4.500- 5.000 dipendenti totali. Il resto sarà fuori dal perimetro aziendale o, peggio ancora, in cassa integrazione o in mobilità in attesa di licenziamento. Tra l’altro non si conoscono neanche gli ammortizzatori sociali specifici ai quali si potrà ricorrere. Fare un calcolo sull’indotto è difficile ma io penso che ci saranno pesanti ripercussioni su tutta la filiera industriale del trasporto aereo.
Per le aziende dell’indotto che girano intorno al trasporto aereo una cosa è lavorare con una compagnia come Alitalia, altro è servire una low cost o una compagnia straniera che svolge lavorazioni soprattutto nel proprio paese. Credo comunque che gli esuberi che si determineranno con questo ennesimo ridimensionamento di Alitalia, ancora non realmente quantificabili perché non si conoscono i numeri reali dell’operazione, avranno effetti moltiplicatori per due o per tre sui vari segmenti dell’indotto.
D: A tuo avviso la liquidazione di Alitalia è solo l’ennesimo episodio di “cattiva impresa” o hanno giocato la concentrazione del trasporto aereo europeo intorno al monopolio di Air France e Lufthansa?
R:Si sono verificate contemporaneamente entrambe le condizioni negative. Alla base di tutto c’è stata sicuramente la decisione, mai formalizzata ma evidente e sostanziale, presa qualche decennio fa in previsione dell’avvio della deregulation del trasporto aereo in Europa, di prevedere la concentrazione su poche compagnie aeree continentali: Air France, Lufthansa e British. Non Alitalia che in quel momento era però sulla stessa linea di partenza di questi vettori e produceva risultati per certi versi anche migliori.
Questa decisione fece parte evidentemente di una impostazione politica che prevedeva un ruolo secondario di Alitalia e della stessa Italia in molti settori produttivi europei. Certo è che quella decisione, per un paese a forte vocazione turistica, ha pesato enormemente sul futuro di Alitalia ed ha comportato perdite economiche ingenti per il paese.
La gestione del management e della proprietà (pubblica e privata) che si è succeduta da quell’inizio degli anni ’90 ad oggi, con pochissime eccezioni di segno diverso, è stata funzionale al ruolo subalterno assegnato a livello internazionale alla ex compagnia di bandiera: sopravvivere alla meglio e attraverso rapporti impari proprio con le compagne maggiori, far produrre utili a loro e perdite costanti a noi.
È altrettanto chiaro poi che i tagli continui ai voli e alla flotta hanno condannato Alitalia ad un ridimensionamento continuo. È difficile dire se questo lento e progressivo processo di destrutturazione industriale di Alitalia sia stato sempre compreso e condiviso da tutti i vertici aziendali e da tutti i governi ma il risultato non cambia.
Per anni Alitalia è stata fedele servitrice di Air France trasportando passeggeri ad alto costo verso Parigi per poi farli decollare con la compagnia francese con i più redditizi voli intercontinentali in tutto il mondo.
Per anni le compagnie low cost, con il consenso di governi di centro destra e centro sinistra hanno drenato risorse pubbliche e occupato il mercato del trasporto aereo italiano e Alitalia, senza sviluppo, senza investimenti e senza un progetto industriale serio, è rimasta a guardare prendendo colpi da tutte le parti senza reagire.
D: La nazionalizzazione di Alitalia era una proposta velleitaria o la migliore da praticare?
R: Sicuramente la nazionalizzazione era e rimane una proposta concreta e possibile, sicuramente l’unica per rimettere in moto industrialmente un settore che sembra ormai perso e al servizio di interessi legati alle low cost e ad aziende con sede in altri paesi europei. Viene ancora respinta e descritta come un provvedimento rivoluzionario e di rottura ma in effetti non è nulla di tutto ciò perché è un processo previsto dall’art. 43 della Costituzione italiana. È proprio la Costituzione, che a me non sembra proprio un testo “rivoluzionario”, a prevedere infatti la possibilità di trasferire allo Stato imprese di servizi pubblici che abbiano carattere di interesse generale. Addirittura prevedendo anche il possibile trasferimento direttamente ai lavoratori.
Altra bufala da sfatare è quella che la deregulation prevede la privatizzazione delle compagnie aeree e/o che tale condizione sia imposta dall’Unione europea. Non è vero assolutamente,
La deregulation è un processo economico e politico globale, parte di quella liberalizzazione dei mercati e dei capitali, che sicuramente vede di buon occhio le privatizzazioni ma non vieta formalmente agli stati di procedere alle nazionalizzazioni.
L’Unione europea distingue invece tra investimento di mercato o aiuto di stato ma non mette bocca sulla possibilità che a fare impresa sia lo stesso soggetto pubblico. Gli impone solo di seguire le “regole di mercato”, che poi si rivelano differenti asseconda del soggetto che si va a valutare, ma questo è un altro discorso e coinvolge il ruolo dell’Unione europea quale guardiano di specifici interessi economici e finanziari.
La virulenza con la quale si portano avanti queste tesi contrarie alla nazionalizzazione servono quindi soltanto a mantenere quell’equilibrio instabile che ha portato alla distruzione tante compagnie aeree nazionali europee e alla concentrazione sui tre vettori principali.
D: Insomma nel 2021 avremo ancora una compagnia di bandiera o una sorta di compagnia low cost subordinata alle grandi compagnie europee?
R: Se non ci sarà una rapida inversione di tendenza, decisioni chiare e nette del governo che vadano nella direzione della rivitalizzazione della compagnia e dello sviluppo di un progetto che, tenendo conto del blocco determinato dalla pandemia ma prevedendo comunque un ruolo diverso e da protagonista di Alitalia nel sistema del trasporto aereo nazionale ed internazionale, quello che mi aspetto è una nuova soluzione parziale e perdente. Una ITA, anche il nome ne descrive il ridimensionamento rispetto ad “alITAlia” con nessuna possibilità di sviluppo, un vettore di carattere regionale probabilmente legato a Lufthansa, così i passeggeri per i voli intercontinentali li porterà a Francoforte invece che a Parigi. Una lotta impari che continuerà con le low cost. Perdita di posti di lavoro e di reddito che si ripercuoterà sulle spalle dei lavoratori ed in parte sullo Stato e su molti enti locali, soprattutto del Lazio.
In definitiva, bene che vada, si tratterà di una nuova “pezza a colori”, colori sempre più sbiaditi, che porterà tra due o tre anni ad una nuova crisi.
Peccato perché in effetti il modo per uscirne ci sarebbe ancora: rivitalizzare Alitalia e non ITA, nazionalizzare o almeno prevedere un ruolo preminente del soggetto pubblico, costruire un progetto di vero sviluppo, finanziarlo adeguatamente, fare la voce grossa con l’Unione europea.
Paradossalmente anche io, come l’Unione europea, sono per la “discontinuità”.
Ma il governo italiano la legge e la decodifica come ulteriore ridimensionamento ed abbandono di un settore produttivo fondamentale per il paese: io invece la “discontinuità” la interpreto in modo opposto, Una radicale “discontinuità” rispetto a quel che di sbagliato è stato fatto sino ad oggi da decenni e la costruzione di una compagnia nazionale che nel giro di pochi anni potrebbe avere almeno 300 aerei e raddoppiare l’occupazione, avere un impatto positivo sull’indotto, sul turismo, sul made in Italy. Utilizzare quei 3 miliardi che sono stati stanziati solo pochi mesi fa e di cui sembra si sia persa traccia per ricostruire un asset industriale solido con un management degno di questo nome, un’azienda che fa sistema e che produce reddito e lavoro buono.
Vorrei essere ottimista ma questo governo, al pari di quelli che lo hanno preceduto, non mi sembra purtroppo in sintonia con queste mie convinzioni.
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