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Crisi, guerra e conflitto sociale

L’invasione russa del 24 febbraio ha fatto fare un salto di qualità alle sotterranee contraddizioni di questo modello di sviluppo e sta scuotendo il quadro delle relazioni internazionali.

Per ciò che concerne il nostro paese, ha reso palesi alcune caratteristiche dell’attuale esecutivo e delle forze che lo compongono, azzerando qualsiasi velleità di margine di manovra rispetto ai diktat dettati dalle oligarchie europee e dagli imperativi decisi in sede dell’Alleanza Atlantica.

Nella ricerca di questo punto di equilibrio tra fedeltà a Washington e a Bruxelles, quello che non è contemplato è l’ascolto della maggioranza della popolazione, comprese quelle porzioni sociali che avevano trovato nella variante populista – pentastellata o leghista – il possibile sbocco alle proprie aspirazioni contro l’establishment politico; e meno ancora quelle parti di società che ancora identificavano “la sinistra” come un campo politico in grado di esprimere uno scampolo di valori progressisti, ma che ora ha messo sfacciatamente l’elmetto.

L’Italia, infatti, ha assunto il profilo di uno Stato co-belligerante all’interno del conflitto ucraino, e si è allineato alla generale politica di riarmamento dell’asse franco-tedesco. Per questo gli apparati culturali, invece di chiarire le ragioni di una crisi sistemica che ha portato ad un conflitto che non sembra trovare soluzione, propongono una continua pornografia del dolore e la condivisione acritica della propaganda di guerra del governo ucraino, con il suo codazzo di fascisteria neonazista vezzeggiata negli studi televisivi come sulle colonne dei giornali.

Nonostante quest’incessante induzione all’empatia acritica del circo mediatico verso una parte dei belligeranti in chiave guerrafondaia (che è cosa ben diversa dalla dovuta pietas nei confronti delle vittime di guerra), i sondaggi registrano un dato banale ma non scontato: mentre il paese legale fa la guerra, quello reale vuole la pace.

La maggioranza vuole la pace perché sa che l’allungarsi e l’inasprirsi del conflitto non porta nulla di buono alle persone che lo stanno già subendo, così come ai cittadini dei governi che promuovono la guerra, ed in generale alimenta quel clima di assoluta incertezza che ci portiamo dietro già prima della pandemia.

 Enon è solo un sentiment che rimane tale, ma sta prendendo la forma di un movimento contro la guerra in gestazione lì dove trova modo di esprimersi attraverso quei “corpi sociali intermedi” che sono stati un argine al processo di marcescenza connaturata al declino dell’Occidente ed un livello, anche minimo, di direzione politica.

Questa spinta, oltre alla sinistra radicale residuale, ha coinvolto parti del movimento cattolico organizzato e la galassia dell’associazionismo laico, oltre a qualche intellettuale che non ha mandato il cervello all’ammasso o contrassegno.

Certamente questi tre ambiti sono essi stessi “campi di battaglia” per l’establishment politico che vorrebbe arruolare, ma che si stanno dimostrando come le pietre d’inciampo più vistose per i progetti del partito trasversale della guerra, in cui il PD svolge il ruolo di traino, ed un argine alla mobilitazione reazionaria di massa.

I dati che emergono sulla dinamica di queste primissime mobilitazioni contro la guerra sono sostanzialmente due.

Il primo è l’agglutinarsi di un ampio arco di forze reali intorno alle azioni intraprese da avanguardie di lavoratori del sindacalismo combattivo che operano in dei punti nevralgici della catena del valore, come aeroporti, nel caso di Pisa, o porti come nel caso di Genova.

La capacità di incidere realmente, tramutando l’obiezione di coscienza in azione concreta, ha fatto fare un salto di qualità a quel processo di tendenza all’unità d’intenti rispetto all’escalation militare che avrebbe, probabilmente, faticato non poco ad esprimersi sulla base della semplice “opinione”.

Il secondo dato è l’individuazione della presenza di basi militari come luoghi principali verso cui indirizzare prioritariamente la propria protesta; oppure la critica  delle istituzioni – come quella universitaria – che vengono sempre più cooptate in ambiti di ricerca a fini bellici.

Rimane ancora sottotono l’azione rispetto complesso militar-industriale, il cui sviluppo è il frutto di scelte strategiche operate dall’establishment politico nel corso degli anni, che è stato fino ad ora il “fiore all’occhiello” dello sviluppo del Warfare State della UE, con l’Italia capofila – insieme alla Francia – di una serie di progetti della PESCO (che verranno ampliati).

Il complesso militar-industriale sta diventando uno degli assi strategici dello sviluppo bellicista della UE in grado di normare un vero e proprio modello di sviluppo “castrense”.

Questo, per il movimento contro la guerra, impone un ripensamento complessivo della politica industriale nel nostro paese, che ponga la riconversione al civile come perno di una pianificazione del settore industriale destinata a risolvere i bisogni della popolazione e non ad arricchire la “lobby delle armi”, rompendo il ricatto occupazionale come leva forte per legittimare l’industria della morte.

Una sfida non aggirabile, quella della riconversione, che è la pars construens della critica alla tendenza al riarmo.

Un altro elemento che lo sciopero del 22 aprile, indetto per una serie di comparti del privato da USB, sta mettendo bene in luce è il fatto che saranno le “classi subalterne” a pagare le conseguenze della guerra; ed è già così, considerato l’incancrenirsi della stagflazione, visibile empiricamente con il caro-energia ed il suo effetto domino sul resto dei prodotti.

Le parole d’ordine “guerra sì, ma al carovita” e “abbassate le armi, alzate i salari” ben semplificano questa prospettiva di ricomposizione che avrà sempre un maggior peso nei mesi a venire, in grado di saldare l’opposizione di stampo etico-politico alla guerra con precise rivendicazioni di classe.

L’ulteriore deflazione salariale ed il lasciar ricadere sul consumatore finale i costi di questa crisi sembrano le uniche ricette che si vogliono mettere in campo da parte padronale.

C’è una contraddizione insanabile che farà sempre più cortoircuitare l’azione delle élite politiche: più va avanti il conflitto, più si incancrenisce la situazione economica che paralizza il nostro sistema produttivo, ben lontano da raggiungere non solo i valori pre-covid, ma anche quelli pre-crisi 2009.

Dopo quel tracollo, seguito dalla pandemia, ora è la guerra che ci mostra l’intrinseca fragilità del nostro modello di sviluppo.

L’ha messo nero su bianco, peraltro, il rapporto di previsione CsC – «l’economia italiana alla prova del conflitto in Ucraina» – esposto dal presidente di Confindustria Carlo Bonomi, che parla esplicitamente di recessione tecnica.

Una relazione che pure prende come scenario principale una ipotesi assai ottimistica – la cessazione delle ostilità – considerato il palese tentativo di USA e Gran Bretagna, in primis, di trasformare il conflitto ucraino in un “Afghanistan” per la Russia, con evidenti ricadute molto negative per l’Europa, che comunque in queste settimane gioca da guerrafondaia forse più degli anglo-americani.

«Confindustria affianca allo scenario base altre due ipotesi alternative», scrive il Sole24Ore di domenica scorsa, «modulate in base alla variabile chiave della durata del conflitto. Con la fine della guerra a dicembre (‘scenario avverso’) la crescita risulterebbe all’1,6% nel 2022 e all’1% nel 2023 (contro l’1,6% dello scenario base); con una anno in più di battaglie arriverebbe all’1,5% quest’anno per diventare negativa (-0,1%) il prossimo».

Con la pandemia non ancora debellata, le catene di approvvigionamento in forte difficoltà, e la scarsità di alcune materie prime fondamentali per il manifatturiero, l’agricoltura, l’allevamento e l’industria di trasformazione alimentare, le previsioni dei Confindustria – anche quelle degli scenari peggiori – sembrano più impostate al wishfull thinking, o alla solita disperata questua nei confronti di un governo prono ai suoi interessi, quanto sordo a quello dei bisogni popolari.

Sono almeno altri due i fattori di forte criticità.

Un mero calcolo aritmetico sulle previsioni di sostituzione del gas russo, per la UE e il nostro paese, o – a maggior ragione – in caso di blocco dell’erogazione da parte di Mosca – mostra come gli ambiziosi progetti di indipendenza dal gas russo siano decisamente troppo ottimisti per il breve-medio periodo.

In un articolo di D.Dakuciaiev e N.Makeev, riportato da “Lettere da Mosca”, viene riportato quanto segue: «nel caso in cui le forniture dalla Russia si fermino per lungo tempo, si prenderanno misure estreme: un uso intenso del carbone, che farebbe risparmiare 20 miliardi di metri cubi di gas, e centrali nucleari (circa 13 miliardi in più). Tuttavia anche con l’aggiunta di queste “misure estreme”, la cifra finale di 155 miliardi resta ancora irraggiungibile: mancano ancora 27 miliardi di metri cubi».

Una cosa sottolineata da tutti gli analisti un minimo competenti, secondo i quali le forniture di petrolio dalla Russia potrebbero teoricamente essere compensate, ma non possono invece esserlo quelle del gas, per quanto vengano diversificate.

Il tutto comunque al costo di un peggioramento della crisi climatica evidente, con la transizione ecologica che sta andando in soffitta.

Ma il fenomeno che sembra preoccupare maggiormente gli analisti, e che non sanno di fatto come arginare, è il governo della stagflazione che sembra proporre una opzione secca tra il prediligere la governance dell’inflazione o la crescita economica, sintomo di come l’attuale sistema non produca mai soluzioni win-win.

Per capirci, sembra che le strade si biforchino: o un contenimento dell’inflazione con l’innalzamaneto rapido dei tassi di interesse, che porta dritto alla recessione, od l’accettazione di un’iper-inflazione per non frenatre la crescita.

Tertium non datur, nella gestione capitalista della crisi.

Anche per questo lo sviluppo di un ampio ed incisivo movimento contro la guerra, con parole d’ordine chiare che mirino a porre termine alla spirale bellica, e a rifiutarne i costi che si stanno abbattendo sulle classi subalterne, è l’unica possibilità che abbiamo per sottrarci al suicidio collettivo cui ci stanno portando le classi dirigenti.

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