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La cura del linguaggio. Non giocate con il “Genocidio”

La guerra è il terreno ideale della propaganda, perché – paradossalmente – fa immediatamente presa quel senso di “concretezza” che facilita l’eliminazione del ragionamento (necessariamente attento a molti fattori compresenti nei “fatti”).

Inutile stare a discutere se qualcuno ha fatto errori, ora c’è da fare questo”. Frase non a caso pronunciata anche da Mario Draghi, in Parlamento, all’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina. Via le idee, avanti l’elmetto. L’uso della testa diventa un altro: dal capire al colpire

E’ in questo vuoto di ragionamenti che si fanno strada, quasi incontrastate, parole che sostituiscono i fatti. Una molto ripetuta, in questi giorni, dal presidente Usa – Joe Biden – fino all’ultimo cameriere redazionale o parlamentare italiano è “genocidio”. Termine enorme, da maneggiare con attenzione e senza disinvoltura, perché rischia di esplodere tra le mani.

Se ne è accorto – e preoccupato – perfino Emmanuel Macron, che pure è un banchiere molto incline alla sparata ideologica da quattro soldi, assolutamente pronto a “fare la sua parte” nell’inviare armi all’Ucraina: “non sono sicuro che l’escalation delle parole serva alla causa“.

Come altre volte, facciamo quel che ogni aspirante giornalista dovrebbe fare, ma che i “professionisti dell’informazione” non fanno più. Andiamo a vedere quel è il significa storicamente condiviso di questa parola enorme. Consultando la Treccani…

Che ci dice:

Genocidio: Sistematica distruzione di una popolazione, una stirpe, una razza o una comunità religiosa.

Il termine fu utilizzato per la prima volta dal giurista Raphael Lemkin per designare, in seguito allo sterminio degli Armeni consumato dall’Impero Ottomano nel 1915-16, una situazione nuova e scioccante per l’opinione pubblica.

Tuttavia, fu solo dopo lo sterminio posto in essere dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale e l’istituzione di un tribunale internazionale per punire tali condotte, che la parola genocidio iniziò a essere utilizzata nel linguaggio giuridico per indicare un crimine specifico, recepito sia nel diritto internazionale sia nel diritto interno di numerosi paesi.

L’accordo siglato a Londra l’8 agosto 1945 tra Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e URSS, prevede, infatti, la categoria dei ‘crimini contro l’umanità’, che include lo stesso g. e rientra a sua volta nella più ampia categoria dei crimini internazionali.

Il 9 dicembre 1948 l’Assemblea generale dell’ONU ha poi adottato una convenzione che stabilisce la punizione del genocidio commesso sia in tempo di guerra sia nei periodi di pace e qualifica come genocidio: l’uccisione di membri di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso; le lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; la sottomissione del gruppo a condizioni di esistenza che ne comportino la distruzione fisica, totale o parziale; le misure tese a impedire nuove nascite in seno al gruppo, quali l’aborto obbligatorio, la sterilizzazione, gli impedimenti al matrimonio ecc; il trasferimento forzato di minori da un gruppo all’altro.

Tale definizione è stata accolta nell’art. 6 dello Statuto della Corte penale internazionale firmato a Roma il 17 luglio 1998.

Come si vede, negli accordi internazionali sottoscritti anche dall’Unione Sovietica, si può legittimamente definire genocidio un insieme di pratiche convergenti nell’obiettivo di eliminare fisicamente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso.

Ogni guerra è un orrore. E in ogni guerra vengono messe in atto una o più delle “pratiche” indicate in quella definizione.

In ogni guerra si uccidono – oltre ai militari nemici – anche civili, donne e bambini compresi. Un orrore particolare per cui è stato coniato, qui in Occidente, il termine più asettico di “danni collaterali”. Ma si può usare solo quando sono i “nostri” eserciti – la Nato e gli Usa – a provocarli.

In ogni guerra ci sono stupri, torture, rappresaglie, famiglie dissolte nella diaspora dei profughi, ecc.

Ma se la guerra non mira a sterminare un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, pur restando un orrore assoluto, non può essere qualificata come genocidio.

Gli esempi storici fatti nella Treccani sono appunto lo sterminio degli armeni praticato dalla Turchia alla fine della Prima guerra mondiale e, naturalmente, lo sterminio di ebrei, comunisti, zingari, gay, ecc, perseguito con “logica industriale” dai nazisti. Tedeschi e non (solo l’Ucraina fornì circa 250.000 uomini alle truppe tedesche…).

Non a caso, quando al parlamento israeliano l’istrione Zelenskij ha provato ad assimilare quanto sta avvenendo nel suo paese oggi con l’Olocausto degli anni ‘40, tutto il sistema politico di Tel Aviv ha ritenuto necessario ricordargli – a lui, nonostante sia di origine ebraica – che quella parola non può essere usata per qualsiasi guerra.

Se ogni guerra è “genocidio”, allora nessuna guerra avrebbe più nessuna legittimità. Neanche quelle che Israele e l’Occidente conducono ad ogni piè sospinto.

Stiamo parlando di cose terribili, e sappiamo che mostrare freddezza razionale su questi argomenti può facilmente essere fatto passare per cinismo. Ma il pensiero filosofico e giuridico esiste proprio per razionalizzare – freddamente, senza farsi dominare dall’emotività e dall’indignazione (pur provandole) – argomenti che letteralmente grondano lacrime e sangue in quantità inconcepibile.

La distinzione tra le “normali” atrocità di ogni guerra e il genocidio corre parallela alla distinzione – nel pensiero militare – tra guerra per la sottomissione del nemico e guerra per il suo sterminio.

Nel primo caso è nota la sintesi prodotta dal generale prussiano Carl von Clausewitz – “la guerra è continuazione della politica con altri mezzi” (e viceversa, naturalmente). Che considera insomma la guerra come una possibilità fra le altre per il raggiungimento di obiettivi politici, basati sugli interessi di un paese e della sua classe dominante. A guerra finita e risultati raggiunti sul terreno (si può anche perdere…) ci si siede e, tra nemici, si stipula un accordo, si media, si accettano perdite e si certificano conquiste.

La guerra di sterminio, al contrario, non prevede trattative, ma l’eliminazione del nemico. Non persegue un altro tipo di relazioni tra diversi interessi (popoli, classi, ecc) ma la soppressione di quelli altrui.

Calando la griglia teorica sul presente, appare piuttosto evidente che quella in corso, nonostante l’alto numero di morti civili, non sia una “guerra di sterminio”. E dunque non abbia la principale caratteristica del “genocidio”: l’eliminazione completa di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso.

Uscendo definitivamente dal piano teorico, resta da capire perché Biden e il suo ventriloquo Zelenskij – e tutta la catena di comando dei media occidentali – si sia pervicacemente aggrappato all’utilizzo ordinario di un termine che è per sua natura, e stipulazione universale, “straordinario”.

Ma questa è la parte facile. Se si sta affrontando un “genocida”, non c’è trattativa possibile. Dunque si attribuisce al nemico di star facendo una “guerra di sterminio” per raggiungere il proprio obiettivo politico. Che non è naturalmente la “distruzione della Russia”, ma un regime change a Mosca e la “riconquista” di un paese enorme, con risorse energetiche e di materie prime ancora non completamente individuate.

Un ritorno ai “bei tempi” di Eltsin, insomma, quando le multinazionali Usa potevano scorazzare per impossessarsi di tutto quel che aveva un valore.

Voi direte: ma Zelenskij e gli ucraini che ci guadagnano? In effetti l’Ucraina è solo un campo di gioco dove si stanno scontrando due giganti stranieri. A partita finita, a secondo dei risultati, gli ucraini avranno perso molto in vite, risorse, territori, ecc.

Al presidente-attore verranno invece offerte alternative. In fondo Hollywood non è un brutto posto…

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