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L’assurda vicenda giudiziaria di Giulio Petrilli, morto ieri notte

Giulio Petrilli ci ha lasciato prematuramente questo notte a causa di una embolia polmonare. Ricoverato d’urgenza non ce l’ha fatta. Corpo possente da vero rugbista lo ricordiamo per la sua incredibile umanità, per la generosità debordante.

Nonostante l’assoluzione finale, i sei anni di detenzione, trascorsi nelle carceri speciali con l’accusa di partecipazione a banda armata, l’avevano segnato.

In prigione, nel 1984, era stato anche duramente picchiato dalla polizia penitenziaria dopo una fermata all’aria di protesta fatta con si suoi compagni per denunciare le condizioni di detenzione.

Una volta uscito aveva speso tutte le sue energie nelle battaglie contro il carcere, la detenzione politica e per l’amnistia, contro la cultura politica giustizialista che imperversava e imperversa in quel po’ che resta della sinistra, contro il populismo penale, pagando anche di persona, affrontando polemiche velenose e attacchi personali.

Si è battuto fino all’ultimo contro il 41 bis, restando vicino e conducendo visite ispettive all’interno di queste sezioni speciali. Viveva come un tormento personale la reclusione di questi militanti, le loro condizioni di isolamento.

Partendo dalla sua esperienza personale raccontata nell’articolo qui sotto, scritto il 3 ottobre del 2012, Giulio aveva avviato una lotta senza quartiere contro l’ingiusta detenzione. Nonostante l’assoluzione i giudici avevano rifiutato di risarcirgli i sei anni trascorsi nelle carceri speciali perché – avevano spiegato – il loro errore iniziale era stato indotto dalla sue “pessime frequentazioni”.

Vicenda kafkiana che aveva acceso in lui un fuoco inesauribile che lo spingeva a battersi contro ogni forma di reclusione, di internamento, contro l’esilio, ma che al tempo stesso lo bruciava consumandolo.

Ho conosciuto Giulio sulle strade intorno a L’Aquila quando mi recavo in Abruzzo durante i miei primi permessi. Ricordo la volta, poco dopo il terremoto, in cui mi portò nella zona rossa per farmi conoscere le ferite terribili inferte a quella città. E poi le tante telefonate, le discussioni, la sua voglia continua di riaprire battaglie come quella sull’amnistia.

Giulio non si arrendeva mai. Ciao Giulio!

Paolo Persichetti

Dalla filosofia del diritto alla teologia giudiziaria. L’istituto del risarcimento per ingiusta detenzione è disatteso nella gran parte dei casi da una magistratura aggrappata al dogma della propria infallibilità

3 ottobre 2012

Soltanto un terzo delle richieste di risarcimento per ingiusta detenzione trovano soddisfazione. E’ quanto emerge dagli ultimi dati forniti dall’Eurispes e dall’Unione delle camere penali italiane.

Su una media di 2.500 domande annuali (nel 2011 ne sono state presentate 2.369) appena 800 vengono accolte.

Il motivo è semplice e al tempo stesso sconcertante: l’Italia è l’unico paese in Europa dove l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione è regolato da una clausola, inserita nel comma 1 dell’articolo 314 cpp, che esclude il risarcimento nei casi in cui il ricorrente «abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave».

Secondo la norma per avere diritto al risarcimento non è sufficiente avere dalla propria parte una sentenza d’assoluzione irrevocabile, secondo una delle formule previste dal codice: “il fatto non sussiste”, oppure “non è stato commesso” o non” costituisce reato” o “non è previsto dalla legge come tale”.

Non basta nemmeno che la giustizia abbia riconosciuto l’illegittimità della misura cautelare.

Chi ha ingiustamente subito il carcere deve “dimostrare” di non aver tenuto un comportamento tale da aver tratto in inganno i magistrati con atteggiamenti omissivi o perché non si è avvalso delle funzioni difensive, che pure restano un diritto fondamentale della persona sottoposta a indagini o imputata, ma anche sotto il profilo delle proprie frequentazioni.

Ciò vuol dire che le sentenze assolutorie non sono valutate come tali, ma sottoposte ad un nuovo processo che conduce ad esaminare e giudicare sotto il profilo ‘morale’ la personalità di chi è stato assolto, introducendo un criterio discriminatorio che inanella una serie impressionante di violazioni: dal ne bis in idem, all’invenzione di una sorta di ‘quarto grado’ di giudizio capace di resuscitare la colpa anche al di là di ogni assoluzione fino all’inversione dell’onere della prova.

Nel giugno scorso, la quinta sezione penale della corte d’appello di Milano ha rigettato l’istanza di risarcimento per ingiusta detenzione di una persona assolta in via definitiva dopo aver trascorso 6 anni nelle carceri speciali, sostenendo che «nessun diritto alla riparazione spetta a chi, frequentando terroristi, o comunque soggetti appartenenti all’antagonismo politico illegale, abbia colposamente creato l’apparenza di una situazione che non poteva procurare l’intervento dell’Autorità giudiziaria.

Poco importa, ai fini che qui interessano, l’esito del giudizio penale. Occorre distinguere – prosegue il collegio – l’operazione logica compiuta dal giudice del processo penale da quella, diversa, del giudice della riparazione.

La reciproca autonomia dei due giudizi comporta che una medesima condotta possa essere considerata, dal giudice della riparazione come contributo idoneo ad integrare la causa ostativa del riconoscimento del diritto alla riparazione e, dal giudice del processo penale, elemento non sufficiente ad affermare la responsabilità penale».

I magistrati hanno teorizzato e messo in atto un doppio criterio di giudizio: il primo sottoposto alle vigenti leggi processuali; il secondo che riabilita la colpa tipologica è non si cura degli effetti legali dell’assoluzione, che seppure elimina la colpa mantiene il sospetto e soprattutto conserva la responsabilità.

Siamo di fronte ad un perenne “diritto del nemico” che trasforma in un accessorio a geometria variabile la presunzione d’innocenza recepita dall’art. 27 della costituzione.

Chi viene assolto per reati avvenuti in luoghi dove è presente la criminalità organizzata, diventa responsabile del fatto di aver frequentato contesti che brulicano di pregiudicati; chi è assolto da reati di eversione, se ha frequentato luoghi di conflitto, recepito culture antagoniste, anticonformiste e irregolari secondo la norma politico-morale dominante, è ritenuto responsabile di una ‘corrività ambientale’ che ha indotto la coscienza del giudice a sbagliare.

E’ una colpa di natura etico-morale quella che qui viene scovata e sanzionata con il mancato risarcimento.

Non sfugge che attraverso questo dogma dell’infallibilità assoluta del giudice, come fu per il concilio Vaticano I° che nel 1870 introdusse l’infallibilità ex cathedra del pontefice, si opera il passaggio dalla filosofia del diritto alla teologia giudiziaria.

Un’arrogante pretesa che spiega l’errore ricorrendo all’alibi della “colpa apparente”, giustificata non da una cattiva valutazione degli elementi probatori a carico o discarico ma dalla ‘doppiezza’ e dall’ambiguità della persona sottoposta a indagine o giudizio, alla stregua del maligno che con le sue arti malefiche confonde e trae il mondo in inganno.

Sarebbe tempo di riportare la giustizia dalle sfere della santità celeste ad una più terrestre dimensione profana.

* da Insorgenze.net

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Morto Petrilli, vittima dell’antiterrorismo e non risarcito

È morto Giulio Petrilli protagonista di una incredibile vicenda giudiziaria relativa alla storia degli anni ‘70 e del “terrorismo”, quindi non la sola, ma molto significativa.

Arrestato nel 1980 con l’accusa di aver partecipato a Prima Linea, il pm Armando Spataro chiese per lui 11 anni di reclusione, fu condannato a 8 anni. In appello arrivò l’assoluzione poi confermata dalla Cassazione.

Ma dentro questa vicenda resta “esemplare” la motivazione con cui i giudici rifiutarono il risarcimento per ingiusta detenzione. L’errore contenuto nella sentenza di primo grado era stato indotto dalle sue “pessime frequentazioni”.

Furono parole pesantissime che portarono Petrilli a combattere fino al termine dei suoi giorni per un’amnistia e nella battaglia contro il 41bis, figlio del famigerato articolo 90 che lui aveva provato sulla sua pelle.

Ma andiamo con ordine. Lasciamo la parola allo stesso Petrilli in uno scritto del primo dicembre del 2014.

Ho letto che il nuovo procuratore di Torino è l’ex pm di Milano Armando Spataro  Famoso magistrato di cui si parla sempre in positivo, ma nessuno sa che ha commesso anche gravi errori giudiziari. Lo dico avendolo vissuto sulla mia pelle.

Spataro emise un mandato di cattura nei miei confronti il 23 dicembre 1980 dove mi accusò di partecipazione a banda armata con funzioni organizzative, Prima Linea – racconta Petrilli – In primo grado Spataro chiese 11 anni di carcere. La corte di assise mi condannò a 8 anni. Dopo 5 anni e 8 mesi la corte di Appello mi assolse e poi la Cassazione confermò”.

Petrilli scontò ingiustamente sei anni di carcere. “E non mi hanno risarcito perché secondo i giudici preposti a stabilire se dovevo avere il risarcimento io avevo avuto cattive frequentazioni. I magistrati come Spataro che commettono errori clamorosi vengono promossi, le persone che subiscono gravi errori giudiziari manco vengono risarcite – conclude.

È giustizia o sopraffazione? Avevo fatto anche a luglio richiesta al capo del governo chiedendo danni per dieci milioni di euro per sei anni di ingiusta detenzione. Chiedevo la responsabilità civile del magistrato, non ho avuto risposta”.

Giulio Petrilli ci ha lasciato prematuramente a causa di una embolia polmonare. Ricoverato d’urgenza non ce l’ha fatta – dice Paolo Persichetti – Corpo possente da vero rugbista lo ricordiamo per la sua incredibile umanità per la generosità debordante.

Nel 1984 era stato anche picchiato duramente dalla polizia penitenziaria dopo una fermata all’aria di protesta fatta con i suoi compagni per denunciare le condizioni di detenzione. Si è battuto fino all’ultimo contro il 41bis”.

La vicenda del mancato e negato risarcimento aveva acceso dentro di lui un fuoco inesauribile, ricorda ancora Persichetti secondo il quale soltanto un terzo delle richieste di ristoro per il carcere ingiusto vengono accolte.

Infatti non basta la sentenza di assoluzione e non basta nemmeno che la giustizia abbia riconosciuto l’illegittimità della misura cautelare.

Chi è stato in carcere ingiustamente deve dimostrare di non aver tenuto un comportamento tale da aver tratto in inganno i magistrati con atteggiamenti omissivi o perché si è avvalso delle funzioni difensive che restano un diritto fondamentale dell’imputato anche sotto il profilo delle frequentazioni.

In sostanza le sentenze di assoluzione valgono fino a un certo punto perché poi vengono sottoposte a un nuovo processo dove la personalità di chi è stato assolto viene giudicata a livello morale. Insomma una sorta di quarto grado di giudizio per resuscitare la colpa con tanti saluti all’assoluzione fino all’inversione dell’onore della prova.

Chi viene assolto per reati avvenuti in posti dove c’è la criminalità organizzata diventa responsabile del fatto di frequentare contesti pieni di pregiudicati.

Chi viene assolto da accuse di eversione, se ha frequentato luoghi di conflitto recepito culture antagoniste e irregolari secondo la norma politico morale dominante viene ritenuto responsabile di una sorta di concorso ambientale. In questo modo si arriva alla teologia giudiziaria.

È una giustizia che sta nell’alto dei cieli che processa dopo il processo penale la presunta doppiezza o ambiguità dell’imputato assolto.

E’ il meccanismo che ha stritolato Giulio Petrilli in un’epoca in cui il populismo penale dilaga sempre di più e continua a colpire ormai mezzo secolo di distanza quel periodo degli anni ‘70 con il quale la politica cominciare dalla sinistra rifiuta di fare i conti.

 * Frank Cimini – da Giustiziami

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