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La revisione del PNRR: un gioco delle tre carte per regalare soldi ai padroni

Nei giorni scorsi, mentre l’attenzione pubblica era concentrata sulle vistose crepe aperte nella maggioranza dalle elezioni regionali in Sardegna, il Consiglio dei Ministri ha approvato un nuovo decreto-legge in materia di Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), il mirabolante programma messo in piedi dall’Unione Europea per fronteggiare le conseguenze economiche della pandemia.

Abbiamo seguito fin dal suo avvio questo programma, non senza una certa curiosità: la classe dirigente europea, di cultura neoliberista e ideologicamente contraria alla spesa pubblica e alla pianificazione dell’economia (quante battute sulla politica economica sovietica e sui piani quinquennali?), varava un piano di investimenti addirittura sessennale (2021-2026) e annunciava una pioggia di centinaia di miliardi di euro di spesa pubblica per riparare i danni causati dalla pandemia.

Come abbiamo avuto modo di spiegare, si trattava di mera propaganda, mentre l’obiettivo politico del PNRR era legare le finanze dei Paesi europei ad una serie di condizionalità che li impegnano a varare riforme strutturali orientate alla deregolamentazione e alla liberalizzazione, nonché a vincolare il contenuto dei principali investimenti al negoziato con la Commissione europea, che così non si limita a imporci l’austerità, cioè i tagli alla spesa, ma anche il suo contenuto, ossia l’indicazione dei tagli e delle risorse da salvare.

Ecco da cosa deriva il ritrovato favore verso la pianificazione: il PNRR è la pianificazione del neoliberismo e dell’austerità imposta alle economie europee nel momento in cui queste si trovavano nella necessità di spendere oltre i vincoli del Patto di stabilità e crescita per uscire dalla crisi pandemica.

Ma andiamo con ordine e ricostruiamo le caratteristiche essenziali del PNRR per comprendere il significato politico del recente decreto-legge approvato dal Governo.

Abbiamo detto che il PNRR non rappresenta affatto una sana politica di massicci investimenti pubblici. Da una parte, perché la maggioranza delle risorse del Piano italiano, ben 120 miliardi di euro sul totale di 190, sono conferite a prestito, e vanno semplicemente a sostituirsi all’equivalente prestito che l’Italia avrebbe comunque raccolto sui mercati.

Sotto questo profilo, il PNRR è una mera operazione di maquillage del debito pubblico, che muta nella forma (da titoli del debito scambiati sui mercati, come BOT o BTP, a debito nei confronti della Commissione europea) ma non nella sostanza. Dietro alla cosmesi, resta lo stesso identico ammontare di investimenti che l’Italia avrebbe realizzato nei sei anni del Piano.

A riprova di ciò, nel PNRR sono stati addirittura inseriti, all’epoca della sua adozione, circa 60 miliardi di euro di investimenti che erano già presenti nel bilancio dello Stato, cosiddetti “progetti in essere”.

Ci sono però circa 70 miliardi di euro di PNRR che sono effettivamente finanziati attraverso contributi a fondo perduto da parte dell’Unione europea, dunque in media poco più di 10 miliardi di euro all’anno per nuovi interventi: a tanto si riduce la “marea di denaro pubblico” promessa dall’Europa durante la pandemia.

Ma c’è di più. Il profilo temporale che il Governo Draghi ha dato da un lato all’articolazione dei progetti e dall’altro alla scansione dei finanziamenti da parte dell’Unione europea rende questa gigantesca operazione cosmetica anche un raffinato meccanismo per spostare il peso dell’austerità dai primi anni del Piano (quando era in carica lo stesso Governo Draghi) agli anni successivi.

Infatti, come sottolineato da un interessante dossier della Camera dei Deputati di qualche tempo fa, nei primi due anni del Piano si concentrano sia i “progetti in essere” che la parte principale del contributo a fondo perduto, mentre negli anni successivi prevalgono sia nuovi progetti – che devono occupare uno spazio nel bilancio pubblico – che i finanziamenti a prestito che dovranno coprirli.

Ciò significa che, in termini di saldi di finanza pubblica, l’architettura del Piano ha reso il PNRR un lenitivo dell’austerità nei primi due anni, quando l’Italia riceveva contributi a fondo perduto e portava avanti progetti già presenti nel bilancio dello Stato; al tempo stesso, negli anni successivi, cioè proprio quelli che abbiamo davanti ora, il Piano deve farsi strada negli spazi di finanza pubblica.

Più che il raffinato tecnicismo, usato dal Governo che ha sottoscritto il PNRR per far gravare solo sui successivi il peso finanziario del Piano, ci interessa la logica sottesa ad esso: il Piano si muove sul crinale del pareggio di bilancio, negli angusti spazi dell’austerità imposta dall’Unione europea, e riprova ne è proprio il decreto recentemente approvato dal Consiglio dei ministri. Vediamo perché.

Quel decreto porta a compimento la revisione del Piano voluta dall’attuale esecutivo e condivisa dalla Commissione europea, che l’ha approvata lo scorso dicembre.

Come dichiara la Presidente del Consiglio Meloni, in toni trionfalistici, nella premessa alla IV Relazione del Governo sull’attuazione del PNRR, “con la revisione del PNRR, l’Italia si è dotata a tutti gli effetti di un nuovo Piano caratterizzato dall’introduzione della missione REPowerEU, da sette ulteriori riforme mirate all’ammodernamento e alla semplificazione normativa e dal finanziamento di investimenti aggiuntivi per circa 25 miliardi di euro, volti a rafforzare la competitività del tessuto produttivo, favorendo la transizione verso energie pulite e la diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico dell’Italia e dell’Europa”.

Tuttavia, quei 25 miliardi di euro non sono affatto “investimenti aggiuntivi”, come dichiara Meloni, ma solo nuovi investimenti finanziati attraverso il taglio di altri investimenti, nel religioso rispetto di quel vincolo del pareggio del bilancio pubblico che è il dogma dell’Unione europea ed una delle leve fondamentali delle politiche atte a favorire i profitti e schiacciare i salari, le pensioni e lo stato sociale.

Per capirlo, occorre ricostruire il quadro finanziario della revisione del PNRR. Solo dopo aver chiarito che si tratta della solita operazione a somma zero, senza neanche un euro in più investito per il rilancio dell’occupazione e della produzione, potremo soffermarci su un ultimo aspetto della revisione del Piano, andando a illustrare quali sono questi nuovi investimenti voluti dal Governo Meloni al posto delle voci di spesa soppresse.

La revisione del PNRR ha consentito di finanziare 25 miliardi di nuovi investimenti grazie ad una serie di tagli. Il primo è quello di oltre 7 miliardi di euro di misure che vengono cancellate dal Piano o comunque ridimensionate: tra esse spiccano i tagli alla produzione di impianti di energie rinnovabili (eolico, fotovoltaico e impianti innovativi), alla digitalizzazione del sistema sanitario nazionale e delle aree periferiche del Paese, alle infrastrutture e alla sicurezza ferroviarie, all’istruzione e alla ricerca (fondo giovani ricercatori e dottorati innovativi) e al trasporto pubblico locale non inquinante.

La seconda fonte di finanziamento dei nuovi investimenti PNRR scaturisce dall’inserimento nel nuovo Piano di ulteriori “progetti in essere” per 2 miliardi di euro, che avevano già la loro copertura sul bilancio dello Stato.

Si tratta di un’operazione cosmetica davvero squallida, in questo caso, perché parliamo di risorse già destinate ai territori dell’Emilia-Romagna colpiti dall’alluvione dello scorso anno e alla messa in sicurezza degli edifici scolastici, che vengono spacciate per “nuovi interventi”.

In pratica, fondi già stanziati sono stati “vestiti” da PNRR, con tanto di passerella per la Presidente della Commissione europea, Von der Leyen che, al simpatico grido di “Tin bota, l’Europa resta con voi”, è andata in Emilia Romagna ad offrire agli alluvionati risorse che in realtà erano già state stanziate dallo Stato a ridosso dell’emergenza.

La terza fonte di finanziamento della revisione del PNRR viene da circa 3 miliardi di ulteriori risorse a fondo perduto concesse dall’Unione europea.

Queste sembrerebbero, finalmente, risorse fresche messe a disposizione del rilancio dell’economia. E invece no, pure queste sono finanziate attraverso i proventi ETS (Emissions Trading System’s) che l’Unione europea riceve dalle aste per la concessione delle cosiddette “quote CO2”.

Tali proventi sono già destinati ai Paesi membri per finanziare spese “green” e l’Unione europea non ha fatto altro che trasferirci la nostra quota sotto forma di contributo a fondo perduto per il finanziamento del nuovo capitolo REPowerEU, inserito nella revisione del PNRR e dedicato alla diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico a seguito degli effetti del conflitto in Ucraina.

Sono risorse che l’Italia avrebbe ricevuto e speso comunque, con la differenza che l’iniziativa REPowerEU è orientata molto meno alla transizione ecologica e molto più a stringere il legame tra l’Europa e gli Stati Uniti sul fronte degli approvvigionamenti energetici, anche fossili.

Siamo a circa 12 miliardi di euro di tagli, dunque a meno della metà di quelli necessari a finanziare i nuovi investimenti PNRR. Qui entra in gioco il nuovo decreto-legge PNRR, che individua nel bilancio dello Stato ulteriori 13 miliardi di euro di tagli necessari a coprire la revisione del Piano.

Per aprire gli spazi fiscali necessari a consentire al Governo Meloni di rimodellare il PNRR a sua immagine e somiglianza, il decreto-legge appena varato taglia le principali voci di investimento pubblico presenti all’interno del bilancio dello Stato. Oltre 5 miliardi vengono sottratti alle politiche di coesione, destinate alla riduzione dei divari territoriali, aprendo una voragine nella capacità dello Stato di affrontare la questione Meridionale.

Più di 1 miliardo al fondo per l’edilizia e la tecnologia sanitarie. Poco meno di 2 miliardi tagliati ai Comuni per la messa in sicurezza degli edifici e del territorio, per l’edilizia pubblica, per la manutenzione della rete viaria, del dissesto idrogeologico, della prevenzione del rischio sismico e della valorizzazione dei beni culturali e ambientali.

Circa 4 miliardi vengono tagliati dal Fondo per le opere indifferibili (nato per coprire i rialzi nei costi delle materie prime per le opere pubbliche di primario interesse per i cittadini), dal Piano complementare al PNRR e da fondi pluriennali di investimento, la carne viva della spesa in conto capitale dei vari Ministeri.

Dunque si riducono risorse per i vigili del fuoco e la prevenzione degli incendi, per il contrasto al dissesto idrogeologico, per la rete idrica e fognaria, per l’edilizia pubblica, universitaria e scolastica, inclusa la messa in sicurezza delle scuole, per la prevenzione del rischio sismico, per la tutela del patrimonio culturale, per la manutenzione e la sicurezza di strade e autostrade, per l’abbattimento delle barriere architettoniche, per il rinnovo o l’acquisto di navi, bus e treni non inquinanti, per le reti ferroviarie, per la ricerca, per la mitigazione del rischio idrogeologico e per l’efficientamento energetico.

In buona sostanza, vengono tagliate le spese di investimento necessarie al Paese, quei servizi di cui beneficiano indistintamente tutti i cittadini, dalla sanità alle infrastrutture, dalla scuola alla ricerca. Per fare spazio a cosa?

Tutti questi tagli alla spesa pubblica permettono al Governo Meloni di regalare alle imprese oltre 6 miliardi di credito d’imposta “Transizione 5.0”, consentendogli così di pagare meno tasse a fronte di investimenti per l’ammodernamento delle tecnologie che le imprese ordinariamente fanno; 1 miliardo per l’autoproduzione di energia elettrica, a beneficio dei loro profitti; 2,5 miliardi per la riconversione “green” dei processi produttivi; 2 miliardi per i cosiddetti Contratti di filiera, che sostengono gli investimenti delle imprese in agricoltura.

I sussidi a favore delle imprese contano più della metà del valore complessivo delle misure inserite nel PNRR con la revisione, accanto ad una serie di investimenti nelle reti di gas ed energia elettrica che risultano funzionali ad un affrancamento dall’asse di approvvigionamento energetico legato alla Russia.

In conclusione, oltre ad un groviglio di condizionalità che impone al Paese riforme strutturali orientate al predominio del mercato sullo Stato in ogni settore, il PNRR si rivela essere anche una sistematica opera di pianificazione dell’austerità, come svelato dal decreto-legge approvato in Consiglio dei ministri.

Il Governo e la Commissione europea continuano a decantare le lodi del PNRR come un’occasione unica in termini di potenziale sviluppo del Paese. La realtà è ben diversa: il Governo, d’accordo con la Commissione, taglia spesa sociale, servizi ai cittadini, beni pubblici e infrastrutture per alimentare i profitti delle imprese.

Dicevamo, in apertura, che questo decreto è passato in sordina per la concomitante scossa politica delle elezioni sarde. Tuttavia, è probabile che le difficoltà nel suddividere il peso politico dei tagli contenuti nel decreto – una manovra di 25 miliardi di euro, dunque in tutto e per tutto paragonabile ad una legge finanziaria – abbia avuto un ruolo non di secondo piano nel determinare quelle crepe nella maggioranza di Governo in cui deve inserirsi, come un cuneo, la resistenza politica e sociale a questa nuova ondata di tagli alla spesa sociale.

 * Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.org/

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