Il sindacato USB è tornato ad accendere i riflettori sulle gravissime incongruenze, e conseguenti ingiustizie, che saranno causate nel Paese dalla Autonomia differenziata, della quale è fautrice la Destra che purtroppo ci governa. Rappresenta un dovere civile tentare di fermarla con agitazioni e azioni di opposizione democratica.
Sarebbe troppo facile, però, ha esordito ieri l’economista Luciano Vasapollo nel suo intervento in collegamento con la manifestazione in corso a Napoli, “prendere i dati della Banca d’Italia e della BCE e dimostrare che l’Autonomia differenziata non è altro che un sistema per aumentare le diseguaglianze territoriali. Ma non è soltanto quello, servirà anche a rendere ingestibili i servizi e a dirottare le risorse pubbliche”.
Nel suo intervento in videoconferenza all’Assemblea di Napoli, Vasapollo ha risposto alla greve visione antimeridionale che ispira il progetto della Destra con “l’elaborazione culturale e scientifica della nostra Scuola di economia antropologica decoloniale della Sapienza, facendo emergere l’analisi della crisi generale del mondo, ovvero la volontà di imporre con le armi e le sanzioni una visione unipolare nordcentrica su quella multipolare e pluricentrica, come strumento di lettura anche dello strangolamento del Sud d’Italia” che di fatto si vuole compiere con la nuova legge.
Il che mette dunque in chiaro che “la scelta dell’Autonomia differenziata non è assolutamente una vicenda di natura economica, ma è una questione di natura politica: è uno dei tanti scontri che avvengono in Europa tra interessi divergenti. Pensate che mentre un settore della borghesia europea, il settore predominante, va verso la correzione dell’inflazione e vara spietati provvedimenti politici, economici e, purtroppo, anche militari che spingono verso una falsa decentralizzazione teorica dei processi politici.
In questo contesto i provvedimenti dell’Autonomia mirano a privilegiare alcune aree dell’Italia a discapito delle altre, in controtendenza rispetto alla UE, come denuncia pure la Banca d’Italia. Questa legge contrasta con l’obiettivo di raggiungere il livello europeo lasciando che prevalgano invece un interesse nazionale e la centralizzazione nazionale”.
Una visione gramsciana della società, ad un tempo meridionalista e internazionalista, si ribella alla schiavitù del pensiero, all’omologazione, alla standardizzazione della società attuale, che si affermano in Italia e nel mondo.
Come teorizzato da Nicola Zitara c’è un legame profondo tra la lotta di classe e la contrapposizione tra interessi del Nord e bisogni del Sud che non potevano essere conciliati né dai governi né dai partiti né dai sindacati.
“Non solo il proletariato settentrionale, ma anche i partiti ufficiali ed extraufficiali della sinistra italiana … non possono … servire due altari.”, perché, scriveva Zitara, “gli interessi del proletariato settentrionale… sono inconciliabili con quelli del proletariato meridionale. … Il proletariato settentrionale combatte una sua battaglia economicistica e riformistica” e “anche quando le vittorie politiche e sindacali si traducono in leggi generali, il proletariato meridionale non ne beneficia, perché tali leggi contemplano situazioni estranee all’assetto meridionale. In sostanza il proletariato settentrionale convive col capitalismo anche fisicamente, e in un certo modo partecipa ai frutti della spoliazione che il capitalismo italiano fa (ed ha fatto) del Sud, oltre che di altri paesi sottosviluppati… ciò è costato la sua (del proletariato meridionale) impotenza e la sua evirazione politica di fronte a problemi gravissimi, primo fra tutti l’emigrazione”.
E la rivolta di Reggio Calabria del 1972, intesa come ribellione al nulla economico prospettato dai governi all’ombra del capitalismo tosco-padano, fu per lui non solo una spia del malessere, ma categoria fondamentale per leggere la struttura sociale a dimensione globale (il rapporto tra il Nord e il Sud del mondo) come, ha detto Vasapollo nel suo intervento, lo sono stati di fatto il brigantaggio e il terrorismo.
L’iniziativa dell’USB rappresenta il culmine di una attività indefessa che i Comitati per il ritiro di ogni progetto di autonomia differenziata, l’Unità della Repubblica e la rimozione delle diseguaglianze hanno inaugurato più di 5 anni fa, coadiuvati dal tavolo NO Autonomia differenziata.
Un lavoro difficile e scarsamente valorizzato dall’attenzione dei media che però – negli anni – ha avuto il pregio di rappresentare un punto di osservazione costante sulla vicenda dell’Autonomia differenziata, di monitorare il progetto eversivo che essa rappresenta, nonché di formare e informare la cittadinanza.
Progetto che ora è a un punto di svolta. Il ddl Calderoli, infatti, già approvato in Senato, è approdato alla Camera, dove si stanno tenendo le audizioni presso la commissione affari costituzionali, prima del passaggio in Aula. Il piglio decisionista del governo ha finalmente destato l’attenzione dei tantissimi soggetti del mondo associativo, sindacale e politico che hanno aderito alla manifestazione, molti dei quali non interni al Tavolo.
Così a Napoli si sono riuniti coloro che sanno che l’autonomia differenziata abbatterà il Sud, ma colpirà pesantemente anche il Nord; che sanno che da soli non ci si salva, e che una Repubblica balcanizzata rappresenterà un arretramento per tutti; quanti interpretano le già enormi diseguaglianze che caratterizzano Nord e Sud come un vulnus ai principi della Costituzione, non la giusta punizione per fannulloni, profittatori, per il popolo del ‘chiagne e fotte’, come è stato recentemente rappresentato l’intero Meridione dal ministro Calderoli, in una infelice uscita su “certi professoroni” che, dal suo punto di vista, stanno ostacolando in audizione, con le loro riflessioni, il percorso del ddl.
La manifestazione che il Tavolo di Napoli ha organizzato con cura, capacità, passione e sacrificio ha chiesto dunque il rilancio del Mezzogiorno, cancellato persino dal testo della Costituzione nel 2001, con la riforma del titolo V. Lo stesso Svimez a questo proposito ha registraato gli effetti negativi che la riforma Bassanini del Titolo V della Costituzione ha provocato.
“Lo sviluppo del Mezzogiorno – ha denunciato Vasapollo sulla base dei dati – è frenato da una pressione fiscale superiore nel Mezzogiorno rispetto al Nord. Tra il 2007 e il 2016 è cresciuta dal 29,5% al 32,1%,mentre nel Nord, nello stesso decennio, è diminuita dalla 33,4% al 31,4%. A ciò si aggiunge che l’ampliamento delle disuguaglianze territoriali sotto il profilo sociale riflette un forte indebolimento della capacità del welfare di supportare le fasce più disagiate della popolazione.
Gli indicatori sugli standard dei servizi pubblici fotografano un ampliamento dei divari Nord-Sud, con particolare riferimento proprio al settore dei servizi socio-sanitari che maggiormente impattano sulla qualità della vita e incidono sui redditi delle famiglie”.
Di fatto, come ha spiegato il decano di economia della Sapienza, la cittadinanza “limitata” connessa alla mancata garanzia di livelli essenziali di prestazioni, incide sulla tenuta sociale del Sud e rappresenta il primo vincolo all’espansione del tessuto produttivo.
Ancora oggi infatti per chi vive nelle aree meridionali, nonostante una pressione fiscale pari se non superiore per effetto delle addizionali locali, mancano, o sono carenti, diritti fondamentali di cittadinanza: in termini di vivibilità dell’ambiente locale, di sicurezza, di adeguati standard di istruzione, di idoneità di servizi sanitari e di cura per la persona adulta e per l’infanzia.
Si tratta di carenze di servizi che condizionano decisamente anche le prospettive di crescita economica, perché diventano fattori che giocano un ruolo non accessorio nel determinare l’attrazione di nuove iniziative imprenditoriali.
Per Vasapollo, calabrese e attento osservatore del Sud, “l’esempio macroscopico riguarda l’assistenza socio-sanitaria: gli abitanti del Mezzogiorno sono costretti a emigrare nelle strutture ospedaliere del Centro-Nord per curare patologie gravi o per interventi chirurgici.Circa il 10% del totale dei residenti al Sud si sposta verso strutture ospedaliere di altre Regioni. La soddisfazione per l’assistenza sanitaria e, in particolare ospedaliera, nel Mezzogiorno è molto più bassa che nel resto del Paese”.
In questo contesto, secondo Vasapollo, “l’attuale dibattito sull’Autonomia differenziata solleva questioni cruciali riguardanti l’organizzazione politica e amministrativa del nostro Paese. Tuttavia, è importante analizzare in modo accurato e ponderato le implicazioni di questa proposta, considerando sia i suoi potenziali vantaggi che le sue possibili criticità”.
Ma prima di procedere con una valutazione approfondita dell’Autonomia differenziata, per il decano di economia della Sapienza, “è essenziale comprendere appieno il contesto storico e politico in cui si inserisce questa proposta. La richiesta di maggiore autonomia da parte di alcune regioni è spesso motivata da un desiderio di gestire in modo più efficace le risorse locali e rispondere alle specifiche esigenze della propria comunità. Tuttavia, tale richiesta alimenta tensioni e disparità tra le diverse aree del Paese, rischiando di minare l’unità nazionale e creare divisioni interne”.
Inoltre, “va considerato il ruolo della borghesia europea e dei suoi interessi all’interno di questo contesto. Mentre alcuni settori della borghesia europea potrebbero essere favorevoli all’Autonomia differenziata come mezzo per promuovere la crescita economica e l’innovazione, altri la vedono come una minaccia alla coesione nazionale e agli interessi economici consolidati.
È importante notare che l’Autonomia differenziata solleva questioni complesse riguardanti la distribuzione delle risorse e il bilanciamento dei poteri tra le diverse istituzioni statali. Infatti avrebbe avere un impatto significativo sui livelli di prestazioni dei servizi pubblici, con possibili conseguenze sul benessere e la qualità della vita dei cittadini”.
“Un simile processo – ha ricordato il docente – si è realizzato in Italia una prima volta con l’unificazione generando quello che più o meno propriamente viene chiamato ‘colonialismo interno’: Antonio Gramsci scriveva che la borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento e che tutta la zona meridionale e delle isole funziona come una immensa campagna di fronte all’Italia del Nord che, a sua volta, funziona come una immensa città”.
“Siamo davanti a un problema di civilizzazione che passa – ha rilevato Vasapollo – per l’affermazione della superiorità tecnica e penso che non bisogna andare lontano per vedere i presupposti politici economici e culturali della spogliazione dei paesi da parte di una rafforzata ideologia colonizzatrice”.
“E io – ha continuato – mi permetto di dire, assumendomene la responsabilità, che l’Autonomia differenziata rasppresenta un’altra forma di colonie, un altro colpo del colonialismo che già da tempo ha costituito la premessa economica e l’altra faccia del sistema di produzione capitalistico. Un fatto evidene, ad esempio, nel mercato immobiliare”.
“Ai tempi del Risorgimento – ha rievocato Vasapollo – come meridionali eravamo marginali, ai tempi della Resistenza eravamo visti male, ai tempi del sistema del pensiero unico siamo dei potenziali terroristi. E l’esempio della colonizzazione dei servizi comunali rappresenta proprio uno spaccato fondamentale nel contesto di un generale meccanismo di colonizzazione. e l’abbiamo affermato è più forte.
Io voglio richiamare un grande studioso meridionale, Nicola Zitara, che è stato mio maestro in particolare con il libro ‘Il proletariato esterno’ che ci metteva in evidenza che il dramma del sottosviluppo del Sud, a suo avviso, derivava dalla subordinazione del Mezzogiorno al capitale ‘padano’, era frutto non già di ragioni storiche – o peggio ancora di congenite incapacità razziali – ma di una precisa e deliberata volontà politica”.
Una visione portata avanti da Zitara “con estrema coerenza e rigore intellettuale”, ma che, ha sottolineato Vasapollo, “naturalmente, non contribuì a facilitare la diffusione del suo pensiero, venendo fieramente avversata dagli ambienti accademici e tenuta in ombra da quelli politici, in quanto considerata controproducente sul piano elettorale”.
Il contesto di oggi non è dissimile: assistiamo, ha constatato Vasapollo, “a una colonizzazione imperialista dove l’impero è l’Unione Europea e noi meridionali non abbiamo nessuna voce in capitolo. Non è altro che un momento della lotta di classe… sono i presupposti di una politica e capitalista moderna, integralista, perchè oggi l’espansione del mercato mondiale avviene attraverso sfruttamenti predatori.
Ma c’è bisogno ovviamente della trasformazione delle masse dei colonizzati in una classe di lavoratori che deve essere portata al consenso le leggi della comunicazione. Con un linguaggio di classificazione dell’economia coloniale e dei suoi prodotti a basso costo perché deve essere a basso costo il lavoro. Per la costruzione di una massa enorme di forza lavoro a disposizione delle industrie del nord tecnologicamente avanzato”.
Luciano Vasapollo ha dunque ricostruito che “i vari periodi dello sviluppo economico italiano hanno creato una crescente differenziazione territoriale e sociale con aumento della disoccupazione e della marginalità sociale che ha colpito in particolar modo le aree più deboli della penisola (innanzitutto il Meridione)”.
Il modello di sviluppo neoliberista, già prima della crisi, ha poi trasformato il Meridione “nel laboratorio dell’economia marginale e sommersa, del lavoro nero e sottopagato funzionale al più generale processo di globalizzazione dell’economia. Se comunque tale processo in passato era attenuato dalla mobilità del fattore lavoro da Sud a Nord e dalla redistribuzione fiscale in senso inverso, l’unificazione europea ha lacerato questo processo di parziale redistribuzione ed ha spinto alle riforme costituzionali nel senso del federalismo (non solo fiscale)”.
A questo proposito, ha messo in rilievo l’economista della Sapienza, “un tratto comune di tutte le politiche di attacco frontale al mondo del lavoro degli ultimi decenni è quello della sua frammentazione. A fronte della riunificazione delle lotte negli anni ’60 e ’70 (frutto anche del processo di ricomposizione politica dei salariati e dei subalterni), la ristrutturazione transnazionale del capitale ha prodotto un lungo processo di scomposizione politica, spaziale, giuridica, contrattuale e finanche etnico-razziale della classe lavoratrice.
La divisione della classe nemica in un pulviscolo distribuito sul territorio, la deconcentrazione delle masse lavoratrici, l’ampliamento su scala globale dell’operatività aziendale, le delocalizzazioni, il trasferimento di capitali e macchine come processi effettivi o dispositivi disciplinanti, in poche parole il processo di mondializzazione, hanno fatto arretrare i salariati su posizioni di mera difesa dell’esistente (nei momenti di maggiore tenuta delle lotte) quando non di vera e propria retroguardia”.
Un “processo di de-concentrazione della forza-lavoro e di frammentazione della stessa, spingendo i singoli ad essere imprenditori di sé stessi rafforzando anche sul piano ideologico e, purtroppo anche, antropologico, le ragioni del capitale, dell’individualismo e della concorrenza spietata tra uomini, capitali, merci, spazi, territori, stati, regioni, città/metropoli”.
Mentre “il processo di unificazione europea, ha depotenziato il Parlamento, conferito sempre più potere all’esecutivo e sono state trasferite a nuove entità “autonome” forme di governance fondata su criteri tecnocratici che neutralizzano la decisione politica (in realtà presa a monte) e limitano il campo del decidibile entro le logiche della concorrenza. Così i criteri tipici del privato – ha concluso Vasapollo – prevalgono sulla visione solidaristica dello Stato che ispira la Costituzione, come vediamo appunto con l’Autonomia differenziata”.
* da IlFarodiRoma
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