Persa la funzione guida della politica monetaria, alle banche centrali non resta che surfare sulle aspettative dei “mercati”. Vale per la Federal Reserve, vale a maggior ragione per la Bce, che nel suo statuto – ricordiamo sempre – ha un unico obiettivo: la lotta all’inflazione (mentre la Fed deve almeno bilanciare questo stesso obiettivo con le oscillazioni del tasso di disoccupazione).
Ieri la Bce, come “i mercati” si aspettavano, ha tagliato dello 0,25% i tassi sui depositi, quelli che guidano la politica monetaria, portandoli dal 3,75% al 3,5%.
Stando ai dati economici – la Germania sta entrando in recessione tecnica, la produzione industriale italiana crolla con invidiabile costanza da oltre un anno e mezzo, l’inflazione europea è già ora piuttosto vicina al target del 2%, considerato “ottimale” – non poteva far altro.
Semmai, visti appunto i dati, sarebbe stato logico anche un taglio più consistente (lo 0,5), anche se la gravità della situazione sembra aver scosso comunque i vertici di Francoforte inducendoli ad abbassare dello 0,6% sia il tasso di rifinanziamento principale che il tasso sulle operazioni di rifinanziamento marginale, rispettivamente al 3,65% e al 3,90%.
Insomma, una riduzione dei tassi di interesse base troppo timida e soprattutto tardiva, dato che fa seguito ad un analogo taglio nel mese di giugno che ovviamente non ha lasciato alcuna traccia nella dinamica economica.
La presidente Christine Lagarde ha evitato di dare indicazioni sul futuro: «Sarà quel che sarà. Rimaniamo dipendenti dai dati. Il percorso sui tassi è in discesa ma non è predeterminato né come sequenza né come entità».
Siamo ben lontani dal “whatever it takes” del suo predecessore. Ma del resto Lagarde non ha alcuna credibilità personale (basti ricordare le sue lettere a Sarkozy quando lei era ancora – addirittura – presidentessa del Fondo Monetario e l’altro presidente francese) e la sua carriera è considerata un “miracolo fondato sulle relazioni”, non certo sul livello scientifico.
“I mercati” si attendono ora un altro taglio della stessa entità, ma soltanto a dicembre, visto che per la prossima riunione del vertice Bce (ad ottobre) non sono previsti dati significativi, o sufficienti a motivare nuove mosse. Il che, ancora una volta, significherà troppo poco e troppo tardi.
La questione è infatti relativa agli obiettivi di una politica monetaria, se limitati alla sola inflazione oppure all’insieme macroeconomico. Ed è noto che paesi di rilievo nell’assetto UE (e dunque della Bce), sono profondamente restii ad allentare la presa sui tassi di interesse. Germani, Olanda, Finlandia ed altri, però, nonostante le sparate ideologiche sulla necessità di non premiare i “paesi cicala” (quasi tutti gli altri) con tassi troppo leggeri (che aiuterebbero a tenere più bassi i rispettivi debiti pubblici), sono notoriamente più attenti a mantenere i proprio vantaggio competitivo fondato anche sulla possibilità di rifinanziare a costo quasi zero il proprio debito, emettendo titoli stato considerati “più sicuri”.
E sono, così, stupidamente disattenti davanti al generale calo della domanda in Europa, provocato da tassi troppo alti. “Stupidamente” in senso proprio: tra i danneggiati da vendite inferiori ci sono anche le proprie industrie nazionali (per esempio le automobili, con Volskwagen e Bmw in crisi nera, anche per errori propri).
Non facilita però il contrasto ai “falchi” della politica monetaria il comportamento di governi come quello Meloni. Vediamo ogni giorno tonitruanti annunci sulla crescita dell’occupazione (“un milione di posti di lavoro in un anno!”), peraltro convalidati dai dati Istat.
E ben pochi, sulla stampa mainstream, si domandano come sia possibile che così tanti lavoratori in più abbiamo un tanto scarso impatto sulla crescita del Pil (appena lo 0,9%). Segno certo che quei nuovi posti di lavoro sono a zero valore aggiunto, ossia non creano ricchezza.
Com’è possibile? Beh, non è che moltiplicando le vendite degli spritz – e i locali, e gli addetti – si incrementa davvero l’economia… Non ogni posto di lavoro, insomma, ha lo stesso peso nella produttività generale dei fattori produttivi.
Ma da ieri sta girando un altro “annunciato annuncio” secondo cui nei prossimi giorni l’Istat dovrebbe rivedere al rialzo anche le stime sul Pil. Cosa sorprendente perché – come detto prima – lo stesso Istat ha appena certificato un crollo della produzione industriale (uno dei pilastri del Pil, in ogni epoca e sistema produttivo), addirittura del 3,3% rispetto al mese di giugno.
C’è insomma la forte impressione che il governo Meloni stia esercitando una pressione sull’istituto di statistica perché fornisca numeri “migliori” del reale, in modo da facilitare la stesura della stessa “legge di stabilità” da sottoporre a breve alla Commissione europea.
E in effetti una proiezione del Pil più “ottimistica” permetterebbe di diminuire il rapporto debito/Pil (è una divisione di matematica elementare, in fondo) anche senza dover rinunciare – per ora – ad alcune mirabolanti promesse sul taglio delle tasse.
La tecnica usata è antica quanto il mondo ed è stata usata spesso da governi in difficoltà. Per molti versi ricorda le tecniche della propaganda fascista “storica”, quando Mussolini faceva mettere spettacolari fondali di cartone ai lati delle strade durante le visite di ospiti stranieri, per dare l’idea di un paese più forte del reale.
Farlo con il Pil è militarmente meno pericoloso, certo, ma espone a far pagare presto un prezzo ancora più alto a lavoratori, studenti, pensionati, famiglie, ecc, quando il giochino verrà scoperto e bisognerà fare una “manovra correttiva”.
Ma tanto non è detto che dovrà occuparsene il governo attuale, no?
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