Centottanta tifosi del Napoli fermati, identificati e poi espulsi dall’Olanda. È accaduto a Eindhoven, lunedì sera, vigilia della partita di Champions League tra il PSV e il Napoli.
Una città blindata, una “zona rossa” estesa al centro urbano, decine di bus della polizia schierati come fosse un’operazione antiterrorismo. Nessuna guerriglia, nessun assalto, nessuna prova concreta di reato. Solo la colpa di essere un gruppo “riconoscibile”, di intonare cori, di esistere collettivamente, nel bene e nel male.
Le autorità olandesi hanno parlato di un intervento “preventivo”, per evitare disordini. Ma nei racconti dei presenti emergono altre immagini: tifosi fermati mentre bevevano una birra, spinti e trattenuti per ore, rispediti in Italia con un foglio di espulsione e senza aver commesso nulla. È l’ennesima prova di una deriva che, in nome della sicurezza, sta trasformando la prevenzione in punizione, la libertà di movimento in un privilegio concesso dallo Stato.
Chi osserva da lontano potrebbe liquidare quanto andato in scena in Olanda come una “questione da ultras”. Come un qualcosa di giustificabile visto la nomea che si portano dietro gli “ultras”. Sotto sotto come qualcosa di giusto perché erano nella zona rossa… ma sarebbe un errore grave metterla su questo piano. Perché il calcio, da decenni, è il laboratorio politico e sociale dove si sperimentano misure repressive destinate poi a uscire dagli stadi e ad entrare nella vita di tutti e tutte noi.
Ce lo dice la tessera del tifoso, introdotta in Italia nel 2009 con il “pacchetto sicurezza” del governo Berlusconi e operativa dal 2010, su impulso dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni.
Spacciato come strumento per combattere la violenza negli stadi, si è ben presto rivelato per quello che è: una schedatura preventiva, un sistema di controllo capillare che consente alle autorità di escludere intere categorie di persone, spesso senza condanne ma solo sulla base di segnalazioni della Questura. La promessa era più sicurezza; la realtà, una limitazione della libertà di associazione e movimento.
C’è lo ricorda il DASPO, il Divieto di Accesso alle Manifestazioni Sportive, introdotto in Italia già nel 1989 dopo la tragedia dell’Heysel, e progressivamente irrigidito da successive leggi, in particolare la legge Amato del 2007 e poi la “legge Alfano” del 2009, che estese il provvedimento anche a chi fosse semplicemente sospettato di voler partecipare a disordini.
Basta una denuncia, anche archiviata, per ricevere anni di divieto. DASPO diventato ben presto “DASPO urbano”, introdotto dal decreto Minniti-Orlando del 2017 che ha allargato il concetto di “sicurezza” dal contesto sportivo a quello urbano e sociale.
Da questo momento in poi, le stesse logiche repressive applicate negli stadi sono state estese ai centri urbani, consentendo alle autorità locali di allontanare persone da una piazza, una città o una stazione semplicemente perché considerate “indesiderate” o “socialmente pericolose”. Dallo stadio alla città, dagli ultras agli attivisti sociali e politici, il passo è stato breve.
Questi strumenti, la tessera, il DASPO, le zone rosse, i fogli di via, compongono un mosaico che ha un filo rosso ben visibile: la costruzione di un sistema basato su un controllo sociale asfissiante e pre-giudiziale, in cui la “colpa” non è un fatto, ma una potenzialità.
E in quest’ottica, il calcio, ancora una volta, anticipa i processi politici più profondi: la normalizzazione dell’emergenza, l’uso della paura come legittimazione, la trasformazione del cittadino in soggetto da sorvegliare e punire.
A Eindhoven, questo schema è esploso in tutta la sua evidenza, giustificata con parole a noi piuttosto familiari: “ordine pubblico”, “prevenzione”, “zona rossa”. Ma ciò che accade sugli spalti – o comunque nel mondo del calcio – non resta relegato agli spalti. Oggi sono gli ultras, domani saranno nuovamente gli studenti, i lavoratori, i movimenti sociali.
Per questo è indispensabile respingere ogni tentativo di normalizzare la sospensione dei diritti in nome della sicurezza. Dire “se la sono cercata” significa accettare che la libertà non sia più un diritto, ma una concessione.
Difendere i tifosi del Napoli oggi non è difendere la violenza: è difendere l’idea che nessuno possa essere privato della libertà per la sola appartenenza a una collettività. A meno che questa non sia la feccia fascista.
Gli stadi, un tempo cuore popolare del Paese, sono stati trasformati in luoghi dove sperimentare nuovi dispositivi repressivi.
Ma, paradossalmente, come ci ha dimostrato la mobilitazione per la Palestina, è anche dagli spalti degli stadi che si alimenta la resistenza ed è per questo che ogni attacco repressivo a chi vive di calcio va rispedito al mittente.
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Gianfranco
se sei tifoso del Maccabi Tel Aviv le forze di polizia si girano. dall’altra parte o picchiano l’aggredito.on sono solo dei rumorosi ultras. I Maccabi Fanatics sono dichiaratamente razzisti e picchiatori, protagonisti di pestaggi sia in occasione di partite di calcio, anche all’estero, che durante manifestazioni politiche. In rete si trovano molti video delle loro gesta, tra cui la canzone dello stupro cantata ad Amsterdam prima di Ajax-Maccabi. E’ un coro contro l’Hapoel di Tel Aviv, squadra per cui tifano molti arabi israeliani. https://www.reddit.com/r/internationalpolitics/comments/1gnlcvy/maccabi_tel_aviv_the_supporters_of_which_got_beat/?share_id=X2CT3R9-91skqwx-7ysXq&utm_content=1&utm_medium=android_app&utm_name=androidcss&utm_source=share&utm_term=1