SABATO 7 APRILE IN PIAZZA DI PORTA RAVEGNANA A BOLOGNA.
La decisione dell’amministrazione statunitense di inizio dicembre scorso di dichiarare Gerusalemme capitale d’Israele e del conseguente trasferimento in loco dell’ambasciata ha avuto un peso significativo dal punto di vista geopolitico in Medio Oriente.
È stato un segnale dell’attuale debolezza della visione e della funzione strategica degli Stati Uniti nello scacchiere mediorientale, oltre che un chiaro posizionamento rispetto al contestuale rinvigorimento del campo sciita, e a farne le spese in questi anni sono stati popoli senza patria usati come pedine all’interno di quell’area.
L’operazione di Gerusalemme capitale e la scelta di ebraicizzazione di una città con status internazionale riconosciuto dall’Onu ha ufficialmente sancito la pulizia etnica da parte di Israele nei confronti del popolo palestinese.
Come se avessimo ancora bisogno di prove, ciò ha fatto cadere ancora una volta il velo che copre la legalità internazionale. Il doppio standard utilizzato nel caso di Israele legittima il regime di apartheid in cui ogni giorno sono costretti a vivere i palestinesi da parte delle forze israeliane di occupazione.
Non ci ingannano le apparentemente dure parole della Mogherini, l’Alto rappresentante per la sicurezza e la politica estera europea, che nega la possibilità che i paesi UE trasferiscano a loro volta le ambasciate a Gerusalemme.
Le dichiarazioni europee sul conflitto israelo-palestinese non sono mai state seguite da decisioni concrete, e nel corso della storia è bastato molto meno di un’occupazione militare, in corso da più di 60 anni, per provocare lo sdegno e le reazioni della cosiddetta comunità internazionale.
Da dicembre assistiamo a una nuova escalation di tensioni e conflitti in Medio Oriente e a un rimescolamento di carte in tale scenario, in cui gli interessi europei giocano un ruolo affatto secondario, mascherato da buone dichiarazioni, o nella maggior parte dei casi da silenzio.
Basti pensare alle relazioni commerciali di vendita di armi che vantano vari paesi dell’Unione Europea, Francia e Italia in primis, con le petromonarchie del golfo.
In questo quadro, la Marcia del ritorno del popolo palestinese di venerdì ha un significato doppiamente importante.
Il forte carattere popolare e la trasversalità che la caratterizzano sono una manifestazione concreta dell’unità che la resistenza palestinese sta assumendo in questa fase storica. Inoltre, la commemorazione della Nakba nel suo settantesimo anniversario e la rivendicazione del Giorno della terra ribadisce che i palestinesi non dimenticheranno mai i loro diritti e ciò che spetta loro.
La durissima repressione a cui è stata sottoposta questa iniziativa popolare, fatta di centinaia di cecchini e carri armati schierati lungo il confine con l’ordine di sparare a vista contro qualsiasi sospetta turbativa della “sicurezza nazionale”, che nella peggiore delle ipotesi erano sassi lanciati contro i militari, suscita orrore e ci impegna a rimarcare a gran voce tutta la nostra solidarietà, senza cadere nella vergognosa equidistanza a cui ci ha abituato la sinistra nostrana.
Siamo accanto a quella generazione di giovani palestinesi, nata senza prospettive di pace, cresciuta nei campi profughi e in un clima di costante guerra, che conosce soltanto violenza e privazione, di terra, cibo, acqua, che non si arrende e ha ancora il coraggio di alzare la testa e continuare a lottare: Ahed Tamimi, Ibrahim Abu Thalaya, Fawzi al Junaidi, e tanti tanti altri.
Per tutti questi motivi saremo sabato in piazza al presidio di solidarietà, in cui stanno confluendo tante realtà.
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