Abbiamo rubato quest’espressione al post di “Torino 2030” perché vogliamo partire da un’altra affermazione importante di quell’intervento: “Appendino doveva ostacolare l’operazione”.
Mai verità fu più ardita: doveva, non fosse stata completamente in continuità con le politiche di gestione della deindustrializzazione di Torino da parte delle giunte PD.
E del resto, opporsi ad un’operazione che incrocia così emblematicamente il piano nazionale con quello locale, implica autonomia di visione strategica rispetto ai poteri forti, e volontà di rimettere in discussione non solo il destino di Torino dopo la FIAT, bensì l’intera collocazione attuale dell’economia italiana in Europa.
Da questo punto di vista, giustamente, il post citato prima ci ricorda il titolo di “Domani”: con Stellantis “finisce la storia della FIAT”. Ma il “lungo addio” dalla produzione in favore della finanza ed ora dall’Italia in favore della Francia, per Torino significa appunto, in particolare, il salto definitivo nel vuoto.
E nel pieno del “totosindaco”, con le elezioni comunali alle porte e la relativa campagna elettorale in pieno svolgimento, si impone perciò una riflessione centrale, che avanziamo proprio in ossequio al nostro titolo: se non c’è più nulla da perdere, proviamo a dire, in questo contesto, le cose come stanno.
La sciagurata idea di una Torino del terziario, prima del turismo ed ora dei servizi avanzati per l’innovazione, è già fallita annegata nella dipendenza dai debiti post-olimpici, e quindi da banche e fondazioni che ora, padrone della città, pretendono la continua rincorsa ad eventi e mega opere che attraggano investimenti nella “riqualificazione urbana”.
Tutto questo contro i bisogni popolari e le classi subalterne, perché queste “occasioni lavorative” sono inesorabilmente precarie, non possono sostituire strutturalmente l’occupazione nell’industria, e le periferie saranno solo sempre più oggetto di speculazione.
Ma quell’idea, rilanciata nelle manovre elettorali del centrosinistra dallo stesso Castellani, rivela ora il suo aspetto paradossale proprio a ridosso della svendita di FCA, laddove l’innovazione al servizio della “mobilità sostenibile” si disloca a Torino quando il settore dell’automotive, invece, verrà smantellato (nei segmenti produttivi “sovrapposti”, se comanda Peugeot, dove chiuderanno gli stabilimenti, in Francia o in Italia?!).
Perciò a Torino avremo il centro ricarica da fonti rinnovabili, mentre le auto elettriche le faranno i francesi, i tedeschi… ed i cinesi (nella “Motor Valley”), che ora tra l’altro si “mangiano” anche Iveco (continuando la politica del “carciofo”, dopo i giapponesi con Magneti Martelli)!
Non si può “ostacolare” tutto questo delirio senza una scelta indipendente per un’industria nazionale: invece, su questo piano, il via libera dell’UE alla fusione FCA-PSA stride con lo stop per “l’aiuto di stato” ad Italcomp, come se lo stato francese non avesse di fatto il controllo di Stellantis.
L’industria italiana, al contrario, non c’è più, cannibalizzata dalle multinazionali e ridotta a subfornitura di quella tedesca (anche per questo, la competizione in Europa si restringe sull’asse franco-tedesco).
Tuttavia, che ne sarà di Mirafiori (il più grande stabilimento europeo)? Il territorio torinese e piemontese è ormai irrimediabilmente votato alla desertificazione industriale (i cui esempi ormai si sprecano, come dimostra anche la vicenda ex-Embraco, con la sua reiterata falsa reindustrializzazione)? Perché proprio il terziario avanzato, che serve all’industria, dev’essere concepito come un effimero ripiego “futurista” alla Patuanelli?!
Il sindaco che verrà, se fosse dotato di quell’autonomia che dicevamo, dovrebbe fare allora una cosa molto impegnativa, perché di impatto nazionale, ma anche molto semplice, perché di estrema chiarezza: la 500 elettrica non sia l’epitaffio per la chiusura delle fabbriche italiane.
Si concentrino risorse ed investimenti rilanciando un’area industriale storicamente attrezzata, si capovolga il paradigma della deindustrializzazione; almeno in rapporto a tutto il territorio circostante, ma anche per invertire la tendenza nazionale.
Si difenda un patrimonio produttivo fatto di fabbriche e posti di lavoro, contro il disimpegno della proprietà ed i diktat europei a senso unico, per una vera politica industriale. Avevamo promesso di dire le cose come stanno, perciò ci pare questo il punto: rompere col tabù sull’irreversibile declino della città-fabbrica, e quindi con il cortocircuito per cui alla monocultura industriale subentra il nulla solo perché, per i loro interessi, lo hanno deciso gli Agnelli.
Torino non si è fermata nel 2008, Torino è deragliata proprio sul binario della sua sudditanza sabauda al “potere dei soldi”; in realtà dalla “marcia dei 40.000” in poi, assecondata dalle complicità sindacali e della stessa “sinistra” al governo della città.
Il gesto fondamentale da compiere oggi è rompere con questo sodalizio neocorporativo al comando della città, “osando” indicare la ribellione al filantrocapitalismo che la opprime. Un’altra storia si può scrivere solo a partire da questo gesto, che riapra in chiave ecocompatibile la stessa prospettiva industriale della città.
Nel silenzio assordante contro il prestito multimiliardario (a parte il patetico lamento sulla sede fiscale all’estero, con accordo “riparatore” una tantum) a pandemia appena allentata, come Potere al Popolo siamo andati a volantinare a Mirafiori, denunciando il disastro incombente sulla filiera italiana dell’automotive.
Però non ci basta aver avuto ragione, accomunandoci così al vacuo allarme del sindacato confederale, che in realtà non muove un dito (chiede un tavolo di confronto con Tavares, come la Sindaca…). Ora che si diffonde questo punto di vista osiamo, appunto, di più: è proprio vero, manca clamorosamente una voce “di sinistra” contro questa deriva.
Forse perché, anche nelle elezioni a Torino, non basta ricordare che FCA non paga l’IRAP (Grimaldi dixit): non basta essere “di sinistra”, e per questo motivo non c’è su Stellantis una “posizione unica a sinistra del PD”, perché questo connotato oggi di per sé (che porti a “primarie di coalizione”, ad improbabili accrocchi da “voto utile”, o alla pura testimonianza), non significa più niente.
Bisogna promuovere, in questa fase politica segnata da una crisi ricorrente e devastante, un’altra idea di modello economico, da contrapporre nei fatti alla bagarre in atto per l’uso privato dei fondi europei, che ricalca lo schema del massacro sociale già riservato alla Grecia; un’idea di intervento pubblico pianificato con risorse nazionali e finalizzato alle priorità sociali.
Per farlo, occorre spezzare le compatibilità economiche imposte dalla logica del profitto ed in particolare in sede UE, certo: non lo si può fare semplicemente a livello locale. Ma bisogna, intanto, essere dalla parte del popolo; a Torino, sia quando si parla di FIAT che quando si parla di “Parco della Salute”: individuando nel partito trasversale degli affari il vero nemico (altro che TAV, Green Pea, Universiadi o Expo 2035), e costruendo su questo terreno l’accumulazione delle forze necessaria.
Bisogna essere, insomma, davvero per il “potere del popolo”: e noi su questo, non essendo in preda a fatalismi bocconiani di facciata (il prof. Berta infatti, a volte fatalista, quando vuole parlare chiaro, dice ben altro: ricordiamo l’intervista riportata da “Contropiano”) ci prendiamo maledettamente sul serio.
E, soprattutto, non navighiamo a vista per non disturbare il manovratore, con l’alibi che non abita più in C.so Marconi: è vero, infatti, la toponomastica del potere è cambiata, oggi ci sono i grattacieli…ma la contraddizione di classe è sempre più che mai davanti a noi.
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