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Ammalatevi e fatturiamo

È passato un mese da quando la notizia dell’esplosione di contagi all’interno della caserma Serena, a Treviso, è arrivata sui giornali. Prima decine, poi centinaia di migranti chiusi all’interno di una struttura nella quale gli spazi vitali sono ridotti al minimo. «Il centro va chiuso!»: dice Zaia, che ha lasciato espandere il focolaio senza prendere alcuna iniziativa; «Ecco che i migranti portano il Covid!»: dice Salvini, che da ministro si è guardato bene dal chiudere tanto questa quanto altre strutture simili; il sindaco di Treviso, intanto, dichiara che richiederà i danni per l’immagine lesa della Marca. Dopo un mese di tempesta mediatica fuori e di quarantena dentro la caserma adesso i casi stanno diminuendo, fino a raggiungere il livello di quattro positivi alcuni giorni fa. Praticamente tutti gli ospiti hanno contratto il Covid.

Per capire cosa è successo a Treviso è necessario ricostruire la storia della caserma Serena e dell’azienda che la gestisce, la Nova Facility S.r.l. Di cosa si occupa fa la Nova Facility?

Nova Facility fornisce accoglienza a 360°, ponendo una mano amica a chi più ne ha bisogno. Assistiamo e curiamo i migranti all’interno di strutture sicure, inserendoli in programmi di integrazione che possano avviarli verso una vita libera da guerre e sofferenze.

Si tratta, quindi, a giudicare dalla descrizione che l’azienda fornisce di se stessa sul proprio sito, di un ente filantropico, amante delle libertà, dedito a lenire le sofferenze che affliggono i migranti. Si sa però che per fare del bene, soprattutto se si opera in grande scala – e qui si tratta di un’azienda che è arrivata a gestire 4 CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) oltre all’hotspot di Lampedusa – servono mezzi adeguati: ecco che la Nova Facility vanta un bilancio alla fine dello scorso anno di sei milioni abbondanti, puntando ad otto per il 2020.

Una cifra del genere non potrà essere gestita dal primo venuto, servono adeguate competenze e agganci. Nessun problema: Gian Lorenzo Marinese, presidente, proviene da una famiglia dalla lunga e solida storia imprenditoriale. Il padre, Lorenzo, è stato per molti anni amministratore della Pio Guaraldo S.p.a., fiore all’occhiello dell’edilizia nella Marca e oltre (purtroppo fallita nel 2017 con un buco di 90 milioni); la madre, Adriana Marinese, esperta prima di caffè poi logistica, è amministratrice della Nova Marghera S.r.l. (purtroppo anch’essa fallita nel 2017); il fratello, Vincenzo, è infine presidente di Confindustria Venezia e Rovigo. Non è insomma l’expertise a difettare.

La panoramica sul crogiolo dal quale spunta la Nova Facility potrebbe essere approfondita (si consiglia questo articolo di Carlo Ruggiero su Collettiva), ma è sufficiente per ricordare come una parte importante del capitalismo italiano, spesso indebolita dalla crisi economica, si sia gettata sull’accoglienza con spregiudicata rapacità.

La Nova Facility vince i bandi per gestire i CAS per due motivi: da una parte le sue offerte risultano vantaggiose (e in questi casi offerta più bassa, soprattutto dopo il 2019, significa assenza completa di dignità per gli ospiti); dall’altra le sue strutture non rappresentano un problema per le questure locali.

Per capire meglio cosa significhi questo secondo punto abbiamo contattato G., una militante del Centro Sociale “Django” di Treviso, per avere una valutazione sulla gestione della caserma Serena dal momento della sua apertura. «La caserma» racconta G., che da anni con i suoi compagni segue la situazione, «è un luogo completamente isolato. Nessuno è mai riuscito ad entrare.

Ci sono altri casi nel Veneto, prendiamo Cona, in cui le condizioni di vita degli ospiti sono state denunciate, ad esempio da LasciateCIEntrare; a Treviso nessuno ha mai avuto accesso. Né noi del Django, né gente che opera all’interno di campagne nazionali, ma nemmeno i parlamentari di qualsiasi colore, da sinistra a destra, che hanno cercato per motivi opposti di passare i cancelli, sono riusciti a rendersi conto di persona delle condizioni degli ospiti».

Cosa sappiamo dall’interno? Un certo numero di migranti si è appoggiato, negli scorsi anni, a gruppi solidali trevigiani, organizzandosi anche col sostegno delle strutture del Django: «dal rapporto che negli anni fra il 2016 e il 2019 si è stretto con loro sappiamo che all’interno vige una disciplina estremamente rigida, con espulsioni motivate da un minuto di ritardo o completamente aleatorie; che gli spazi sono malsani, che i corsi di italiano non si svolgevano se non in forme simboliche, che la qualità del cibo è estremamente scadente, e che nei servizi igienici non è permessa alcuna forma di privacy». Immaginiamoci una struttura militare abbandonata per anni, riaperta con la minima spesa, arredata alla meno peggio per svolgere un ruolo di accoglienza emergenziale, che però poi si protrae per mesi, i quali in breve diventano anni. Due video che ci ha fatto arrivare una compagna di Potere al Popolo, in contatto con alcuni degli ospiti all’interno, mostrano con chiarezza la situazione. D’altra parte è la norma, la stessa situazione di molti altri CAS in giro per l’Italia.

https://www.seizethetime.it/wp-content/uploads/2020/09/Bagni-1.mp4

https://www.seizethetime.it/wp-content/uploads/2020/09/Aula-comune-1.mp4

La fragilità di una situazione simile è destinata a collassare nel momento in cui si inserisce un fattore esterno, come è stato nel caso del coronavirus. All’inizio di giugno la caserma Serena ospitava più di trecento migranti, in parte impiegati (in nero o con contratto) nel territorio circostante, nell’agricoltura e nell’industria. Già a giugno un operatore, di ritorno da un viaggio all’estero, risulta positivo al Covid; da quel momento la situazione all’interno si è aggravata sempre più, e alla prima chiusura ne è seguita una seconda, che da fine luglio ha decretato la quarantena stretta, garantita dalle forze dell’ordine. Si è deciso, sostanzialmente, di chiudere dentro i cancelli gli ospiti, aspettando che il contagio passasse, in qualche modo.

Si sono visti molti commenti, in questi mesi: si è detto che anche loro, come noi, devono rispettare la quarantena; che non c’è nessuna differenza fra noi loro e che le regole valgono per tutti. “Certo, non sono razzista ma… questi qua proprio non ne vogliono sapere”. Immaginate di essere rinchiusi in una struttura con camere multiple, assieme a persone che il caso ha portato ad occupare il letto al fianco, con cinque o sei docce per trecento persone, una sola stanza dove cucinare, gli unici spazi liberi dove poter stare isolati spazzati dal sole di luglio e agosto; inserite in questa situazione il coronavirus, e mettetevi davanti alla certezza matematica di ammalarvi.

Non basta: chi aveva un lavoro di qualsiasi tipo l’ha perso, beccandosi spesso gli insulti dei padroni – cui queste riserve di manodopera a prezzo bassissimo non dispiacciono – per l’assenza («spero che muoiano tutti di coronavirus»); la gestione autoritaria del centro, inoltre, fa pensare a molti che parlare, semplicemente raccontare quali sono le condizioni di vita, possa comportare delle ritorsioni, ad esempio con difficoltà rispetto ai documenti; le informazioni sanitarie sono state completamente assenti, con quattro, cinque, sei serie di tamponi dei quali in molti casi non sono stati comunicati i risultati.

A questo punto qualcuno all’interno si scalda, ci sono momenti di tensione: eccoli di nuovo che non rispettano le regole, che non aspettano con dignità e spirito di sopportazione il proprio turno per contagiarsi. Alle sei di mattina del 19 agosto quattro ragazzi, ignari dell’apertura di un procedimento giudiziario a proprio carico, sono prelevati e portati in carcere con l’accusa di sequestro di persona, devastazione e saccheggio in concorso. La legge è uguale per tutti.

Anche in questo ambito, come in molti altri – primo fra tutti il lavoro, come scrivevamo il primo maggio – il coronavirus ha agito da reagente. C’è un legame stretto fra quel che è avvenuto a Treviso, la gestione emergenziale delle migrazioni, gli interessi di un’imprenditoria rapace che fattura sulla pelle di chi deve scappare dal proprio paese.

Anche la questura di Treviso potrà riconoscerlo, se vorrà dare corso all’indagine che ha aperto per ragioni conoscitive in merito all’esplosione del Covid nella caserma – eppure qualcosa ci fa dubitare che l’indagine andrà avanti. E invece bisogna schierarsi e chiamare le cose col loro nome: tutte le letture che ignorino gli interessi economici in gioco e che trovino la causa nell’irresponsabilità dei migranti sono razziste, colpevoli e colluse.

* da SeizeTheTime

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