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L’Inferno del miracolo tedesco

Nessuno può tenere da solo sotto controllo quel che accade di rilevante nel mondo. Molti dei mutamenti strutturali, inoltre, appaiono controluce quando si comincia a sgranare una condizione individuale che si rivela ben presto universale. Anche perché il peggio del peggio, nella nuova subordinazione schiavistica dei lavoratori, non viene presentato dal potere nella sua “crudezza”, ma come un “aiuto”, un “supporto”, un “incentivo” o altre mille espressioni rassicuranti partorite dagli esperti della “comunicazione”.

Una sintesi davvero notevole dei meccanismi più perversi presenti sul nuovo “mercato del lavoro europeo” viene offerta da questo articolo, meritoriamente ripreso e tradotto da Voci dall’estero. Parla della Germania e della povertà assoluta dei “nuovi lavoratori” tedeschi. Ma non serve un grande sforzo per vedere la stessa tessitura dispotica che struttura le “riforme del lavoro” avvenute in Italia e in Grecia, e quelle che Macron vuole imporre senza alcuna mediazione sociale in Francia.

Gli analisti “da fuori”, tra cui anche noi, avevano certamente colto molte conseguenze delle “riforme Hartz” sul mercato del lavoro tedesco; precarietà, bassi salari, formazione di una generazione di lavoratori poveri schiacciata sui “mini jobs”, ecc. Quel che viene aggiunto da questo contributo è il carattere costrittivo violento, intimidatorio, intrusivo del meccanismo istituzionalizzato del workfare sperimentato in Germania e di lì in via di diffusione tutta l’Unione Europea. Un sistema che non conosce limiti (“Alla fine del 2016, per esempio, il Jobcenter di Stade, nella Bassa Sassonia, ha inviato un questionario ad una disoccupata nubile e in attesa di un figlio, chiedendo di divulgare l’identità e la data di nascita dei suoi partner sessuali”) e che pretende di “mettere a valore” (o computare come “reddito”) qualsiasi relazione umana.

Un sistema che colpevolizza il povero e il disoccupato, facilitato certamente dalle contorsioni della lingua (debito e colpa, in tedesco, sono com’è noto identificati con il termine schuld, che significa anche obbligo e delitto) e disegna consapevolmente una società in cui la maggioranza dei “faticatori” non ha diritto di parola né rispetto, introietta la “colpa” per la propria povertà e si ritira dalla scena pubblica.

Verrebbe la tentazione di definirlo un sistema “nazista”, ma sarebbe un grave errore. Il nazismo hitleriano si fondava infatti sul consenso interno comprato con salari alti (un keynesismo “molto autoritario”, ebbe a dire lo stesso Keynes), per costruire una potenza economica che andava poi a conquistare i mercati altrui con la violenza militare e la sottomissione criminale di altri popoli considerati “inferiori”.

Il “modello mercantilista” attuale, fatto proprio dalla Ue, si fonda invece sui salari da fame – quelli garantiti dai “mini-jobs” sono già inferiori ai salari cinesi – su cui si scarica tutto il margine di “competitività” di merci che, nei restanti “fattori della produzione”, sono condizionate ferreamente dai prezzi internazionali di materie prime ed energia. Questo modello esporta merci e condizioni del mercato del lavoro, senza l’accompagnamento di carri armati (almeno per ora).

Un modello che sconta anticipatamente gli effetti a medio termine della “disoccupazione tecnologica” anche all’interno del proprio paese e “prepara” dunque una massa di lavoratori dequalificati e flessibili, chini e disponibili per qualsiasi mansione (dal lavoro operaio al sexy shop), scandagliati in ogni aspetto della propria vita privata per scovarvi ulteriori possibilità di riduzione del salario (l’esatto contrario di quel che avevano capito, per esempio, i “negriani”, secondo cui ogni comportamento individuale sarebbe “produttivo di valore”).

Un modello che sembra meno nazionalistico di quello hitleriano ma che si va estendendo su tutto il continente (anche se, nell’attuale cultura delle classi dirigenti tedesche, non giureremmo che le “cicale meridionali” siano oggi escluse dal novero dei “popoli inferiori”…) con la forza del potere economico, il quadro giuridico dei trattati europei e le formule retoriche messe a disposizione dai socialdemocratici (come in Italia col Pd e in Francia con i “socialisti”, da Hollande a Macron).

*****

Su Le Monde Diplomatique, una analisi approfondita del modello sociale tedesco fondato sulle riforme Hartz, che hanno segnato il passaggio dal sistema di sicurezza sociale a tutela dei lavoratori a un modello di “inclusione” dove i disoccupati sono trasformati in una grande sacca di lavoratori poveri sottoposti a un regime di controlli rigidamente coercitivo, fondato sulla stigmatizzazione di chi si trova in difficoltà. Questo è il modello che ispira la riforma del mercato del lavoro che il governo Macron va ad imporre per decreto anche in Francia.

di Olivier Cyran, Settembre 2017

Traduzione di Anna Sperati per http://vocidallestero.it

Il modello a cui si ispira Emmanuel Macron

Ore otto del mattino: il Jobcenter di Pankow, quartiere di Berlino, è appena aperto e già 15 persone attendono davanti allo sportello d’accoglienza, ciascuna chiusa in un silenzio ansioso. “Perché sono qui? Perché se non rispondi alle loro convocazioni, si riprendono ciò che hanno ti hanno dato”, borbotta un signore sulla cinquantina a voce bassa.

Del resto, non hanno nulla da proporre. A parte forse un impiego da venditore di mutande, chissà.” L’allusione gli strappa un magro sorriso. Da un mese, una donna di 36 anni, madre sola, educatrice e disoccupata, ha ricevuto per posta un invito del Jobcenter di Pankow a fare domanda per una posizione da agente commerciale per un sexy-shop. Pena per la mancata domanda: un’ammenda. “Ne ho viste di tutti i colori con questo Job center, ma questo è troppo”, reagisce l’interessata su Internet, prima di annunciare la propria intenzione di sporgere denuncia per abuso di potere.

Nel parcheggio delle case popolari, “la cellula di sostegno mobile” del centro dei disoccupati di Berlino è già all’opera. Su una tavola pieghevole, disposta davanti al furgone del gruppo, la signora Nora Freitag, 30 anni, dispone una pila di brochures intitolate “come difendere i miei diritti di fronte al Jobcenter.” L’iniziativa è stata attivata dalla chiesa protestante nel 2007.

Questo mostro burocratico suscita molto sconforto e sentimento di impotenza presso i disoccupati, che lo percepiscono, non senza ragione, come una minaccia. Una signora sulla sessantina si avvicina con passo esitante. Sembra molto imbarazzata di presentarsi a sconosciuti. La sua pensione di 500 euro mensili non è sufficiente per vivere, perciò riceve un contributo dal Jobcenter. Poiché fatica ad arrivare a fine mese, da poco è impiegata a tempo parziale (“mini job”) come donna delle pulizie per una casa di cura, che le assicura un salario netto mensile di 340 euro.

Rendetevi conto” , afferma la signora con voce agitata, “che la lettera del Jobcenter mi comunica che non ho dichiarato i miei redditi e che devo rimborsare 250 euro. Ma quei soldi non li ho! Inoltre, ho dichiarato tutto dal primo giorno. Ci deve essere un errore… .” Un membro del gruppo la prende da parte per darle i suoi consigli: a chi rivolgersi per un ricorso, o per sporgere denuncia, etc.

Talvolta il furgone serve come rifugio per discutere dei problemi lontano da sguardi indiscreti. “È uno degli effetti di Hartz IV”, osserva la signora Freitag. “La stigmatizzazione dei disoccupati è così forte che molti provano vergogna a parlare della propria situazione davanti ad altre persone.

Uno dei regimi più coercitivi d’Europa

Hartz IV: questa marcatura sociale deriva dal processo di deregolamentazione del mercato del lavoro, detto Agenda 2010, realizzato tra il 2003 e il 2005 dalla coalizione tra il Partito Social Democratico (SPD) e i Verdi del cancelliere Gerhard Schröder. Chiamato con il nome del suo ideatore, Peter Hartz, precedente direttore del personale di Volkswagen, il quarto pacchetto di riforme unisce gli aiuti sociali e le indennità per i disoccupati di lunga durata (senza lavoro da più di un anno) in una allocazione forfettaria unica, versata dal Jobcenter. L’ammontare, piuttosto ridotto, di 409 euro al mese nel 2017 per una persona sola, dovrebbe motivare il ricevente (ribattezzato “cliente”) a trovare un impiego il più velocemente possibile. Sia questo mal remunerato o poco conforme alle competenze.

La sua attribuzione è condizionata da un regime controllato tra i più cogenti d’Europa. Alla fine del 2016, la rete Hartz IV inglobava quasi 6 milioni di persone, di cui 2,6 milioni di disoccupati ufficiali, 1,7 milioni non ufficiali usciti dalle statistiche grazie alla trappola dei “dispositivi di attivazione” (formazioni, “coaching”, impieghi a 1 euro, mini jobs, ecc.) e 1,6 milioni di bambini associati a famiglie riceventi il contributo forfettario dei Jobcenter. In una società fondata sul culto del lavoro, queste persone sono spesso descritte come un gruppo di oziosi e anche peggio.

Nel 2005, in una brochure del ministro dell’economia Wolfgang Clement (SPD) intitolata “Priorità per le persone oneste. Contro gli abusi, le frodi e i self-service nello Stato sociale”, si leggeva: I biologi sono d’accordo ad utilizzare il termine parassiti per designare gli organismi che provvedono ai loro bisogni alimentari a spese di altri esseri viventi. Ovviamente, sarebbe totalmente fuori luogo estendere delle nozioni provenienti dal mondo animale agli esseri umani.

Ma l’espressione “parassiti Hartz IV” fu abbondantemente ripresa dalla stampa, Bild in testa. La vita di coloro che percepiscono i sussidi è difficile. Se il montante minimo percepito non permette loro di pagare l’affitto, il Jobcenter se ne fa carico, a condizione che non superi il massimale fissato dall’amministrazione secondo le zone geografiche.

Un terzo delle persone che si rivolgono a noi, lo fanno per problemi legati agli alloggi”, dichiara la signora Freitag. “Molto spesso perché il rialzo del prezzo degli affitti nelle grandi città come Berlino, le ha spinte al di là dei limiti del Jobcenter. Gli assistiti devono traslocare senza sapere dove, poiché il mercato degli affitti è saturo, oppure, se il costo dell’appartamento supera l’ammontare concesso dal Jobcenter, pagare la differenza di tasca propria erodendo il budget per il cibo.

Dei 500.000 Hartz IV che vivono a Berlino, il 40% paga un affitto che supera il limite imposto. Il Jobcenter ha inoltre la facoltà di sbloccare dei pagamenti d’urgenza, ciò conferisce un diritto che equivale quasi alla curatela. Conto in banca, acquisti, spostamenti, vita familiare o anche sentimentale: nessun aspetto della vita privata degli assistiti sembra sfuggire all’umiliante radar dei controllori. Le 408 agenzie del paese dispongono di un’iniziativa che talvolta supera l’immaginazione.

Alla fine del 2016, per esempio, il Jobcenter di Stade, nella Bassa Sassonia, ha inviato un questionario ad una disoccupata nubile e in attesa di un figlio, chiedendo di divulgare l’identità e la data di nascita dei suoi partner sessuali.

Questo regime inquisitivo trovava già i suoi germi nel manifesto firmato nel 1999 da Schröder e il suo omologo britannico Tony Blair. I profeti della “social-democrazia moderna” vi proclamarono la necessità di “trasformare la rete di sicurezza sociale in un trampolino verso la responsabilità individuale.” Questo testo, intitolato “Europa: la terza via, il nuovo centro”, precisava: “un lavoro a tempo parziale o un impiego scarsamente remunerato è meglio di non avere un lavoro per niente. Perché facilita la transizione dalla disoccupazione verso l’occupazione.”

Un povero che fatica è meglio di un povero inattivo: questa verità è servita come matrice ideologica alla “cesura più importante nella storia dello Stato sociale tedesco da Bismark”, secondo la formula di Christoph Butterwegge, ricercatore in scienze sociali all’Università di Colonia.

In Francia, le riforme Hartz costituiscono da dodici anni una fonte inestinguibile di ammirazione all’interno dei circoli imprenditoriali, mediatici e politici. L’ode rituale al “modello tedesco” si è rafforzata dall’arrivo all’Eliseo di Emmanuel Macron, per il quale “la Germania si è riformata con successo”. Un punto di vista, questo, raramente contestato dagli editorialisti.

Il cancelliere tedesco Gerhard Schröder ha imposto le riforme che fanno la prosperità del suo paese”, ha ricordato il direttore di Le Monde all’indomani dell’elezione del candidato della “start-up nation”, per esortarlo ad esercitare il pugno di ferro sulle sue stesse riforme.

L’economista Pierre Cahuc, ispiratore con Marc Ferracci e Philippe Aghion della riforma del mercato del lavoro immaginata da Macron, elogia “l’eccezionale riuscita dell’economia tedesca” e stima che Hartz IV non solo sia meglio per il lavoro, ma sia preferibile per diffondere gioia e buon umore, perché: “i tedeschi si dichiarano sempre più soddisfatti della loro situazione, soprattutto i più umili, mentre la soddisfazione dei francesi ristagna.

Se “i più umili” nascondono la loro gioia nelle lunghe attese dei Jobcenter, è chiaro che i progetti di Macron si ispirano direttamente al “modello tedesco”. Specialmente, l’indebolimento del codice dei lavoratori e il rafforzamento dei controlli sui disoccupati che saranno sanzionati in caso di rifiuto di due offerte di lavoro consecutive. Nulla ha meglio riassunto lo spirito di Hartz IV del presidente francese, che il 3 luglio ha dichiarato davanti al Parlamento riunito a Versailles: “proteggere i più deboli non significa trasformarli in assistiti permanenti dello Stato”, ma donare loro dei mezzi ed eventualmente obbligarli ad “esercitare un impatto sul loro destino”. Con un’acrobazia verbale simile a quella utilizzata dai promotori di Hartz IV, aggiungeva: “Dobbiamo sostituire all’idea di sostegno sociale (…) una vera politica di inclusione di tutti.” Per Schröder, la parola d’ordine contro i poveri era più lapidaria: “Incoraggiare ed esigere” (“fördern und fordern”).

Del resto Hartz non si è sbagliato. In Francia continua a godere di una buona reputazione. La Germania, però, non ha dimenticato la sua condanna a due anni di prigione nel 2007 e 500.000 euro di multa per aver comprato la pace sociale di Volkswagen corrompendo i membri del consiglio di amministrazione con tangenti, viaggi verso destinazioni esotiche e prostitute. Nessuno vuole più sentir parlare di lui, tanto che il direttore delle risorse umane si è rifugiato a Parigi per trovare un pubblico disposto ad applaudirlo. Il movimento delle imprese francesi (Medef) lo invita regolarmente, François Hollande, che lo ha ricevuto quando era presidente, avrebbe pensato di includerlo tra i suoi consiglieri. Ma è ormai a Macron che riserva i suoi oracoli.

Tuttavia Hartz ha giocato un ruolo di secondo piano durante l’avvento delle riforme Schröder, ha certamente presieduto la commissione dei lavori, ma è soprattutto la Fondazione Bertlesmann che ha orchestrato le operazioni principali. L’opera “filantropica” di uno dei gruppi più influenti della Germania, è stato il fulcro dell’elaborazione dell’Agenda 2010, finanziando conferenze e dibattiti con la partecipazione dei giornalisti. “Senza le opere di preparazione e accompagnamento effettuate a tutti i livelli dalla Fondazione Bertlesmann, le proposte della commissione Hartz e la loro traduzione in legge non avrebbero mai visto la luce”, osserva Helga Spindler, professoressa di diritto pubblico all’Università di Duisburg. La fondazione si spingerà fino al punto di mandare i 15 membri della commissione in soggiorno studio presso quei paesi considerati all’avanguardia in materia di valorizzazione dello stock dei disoccupati: Danimarca, Svizzera, Paesi Bassi, Austria e Regno Unito.

Posizioni regolari trasformate in posti di lavoro precari

Il 16 Agosto 2002 Hartz rimette le proprie visioni conclusive a Schröder sotto la cupola della cattedrale francese a Berlino. Oggi è un “grande giorno per i disoccupati”, esulta il cancelliere, che promette di immettere due milioni di posti di lavoro nel sistema entro i due anni successivi.

Composto di 344 pagine, il rapporto della commissione comprende tredici “moduli d’innovazione” scritti in un gergo manageriale misto tra tedesco e inglese. Il Job center è definito come un “servizio migliorato per i clienti”. Entrato in vigore il primo gennaio 2005, il regime studiato va di pari passo con l’altro pacchetto dell’Agenda 2010, che definisce la deregolamentazione del mercato del lavoro. Questa è definita dalla defiscalizzazione delle basi salariali, il lancio dei mini jobs a 400 euro, poi 450 euro al mese, soppressione dei limiti di ricorso al lavoro temporaneo, sovvenzioni alle agenzie di lavoro interinale che richiamano disoccupati di lunga durata ecc.

La febbre dell’oro si impossessa degli imprenditori, soprattutto nel settore dei servizi. Riforniti di nuova manodopera proveniente dai Jobcenter, gli imprenditori approfittano dell’opportunità per trasformare dei posti di lavoro regolari in posizioni precarie, liberi, coloro che li occupano, di fare la coda al Jobcenter per integrare la loro paga ridotta. Il lavoro ad interim aumenta, passando da 300.000 assunti nel 2000 a quasi un milione nel 2016. Nello stesso tempo, la proporzione di lavoratori poveri – remunerati al di sotto di 979 euro al mese – passa dal 18% al 22%. La creazione nel 2015 del salario minimo, a 8,84 euro all’ora, non ha invertito la tendenza: 4,7 milioni di lavoratori attivi sopravvivono con un salario bloccato a 450 euro al mese. La Germania ha convertito i suoi disoccupati in bisognosi.

I bambini convocati al Jobcenter

Hartz IV funziona come un servizio di impiego precario obbligatorio. Le minacce delle sanzioni che pesano sui “clienti”, li tengono i trappola costantemente.

Il signor Jürgen Köhler, un abitante di Berlino di 63 anni, esercita in modo autonomo la professione di grafico. Spiazzato dalla concorrenza delle grosse compagnie, che abbassano i prezzi, non ha abbastanza progetti perciò si è iscritto al Jobcenter. “Un giorno, racconta, ho ricevuto per posta una notifica che annunciava che mi sarei dovuto presentare il lunedì e martedì successivi alle 4 del mattino presso un agenzia di lavoro interinale, per essere assegnato ad un cantiere ed essere pagato la sera stessa. Inoltre sono stato invitato a procurarmi delle scarpe di sicurezza. Evidentemente non possedevo l’equipaggiamento richiesto e non avevo mai lavorato in un cantiere di costruzioni. Cominciare alla mia età non mi pareva una buona idea.” Poiché era troppo tardi per tentare un ricorso, al signor Köhler non è rimasto che contestare la misura in tribunale, sperando che il giudizio arrivasse prima delle sanzioni, che possono decurtare il sussidio del 10%, 30% o anche del 100%.

Nulla è esente dall’accetta delle sanzioni, nemmeno i figli dei riceventi i sussidi in età compresa tra i 15 e i 18 anni. In cambio dei 311 euro mensili versati nel budget della famiglia, anche se frequentano ancora la scuola il Jobcenter li può convocare in ogni momento e consigliare loro di orientarsi verso specifici settori, minacciandoli di tagliare i fondi se non si presentano all’appuntamento. Effetto pedagogico garantito sull’adolescente, che porta già Hartz IV tatuato sulla fronte.

Membro del gruppo di disoccupati Ver.di, il sindacato unificato dei servizi, il signor Köhler, ha potuto beneficiare di un avvocato gratuito e di una decisione in suo favore. Ma non tutti hanno questa fortuna. Nel 2016, circa un milione di sanzioni sono state pronunciate, con un prelievo di 108 euro a testa, un guadagno notevole per l’agenzia federale del lavoro, che è anche l’autorità che tutela i Jobcenter. Nello stesso anno, questi ultimi sono stati oggetto di 121.000 reclami, che sono stati rigettati nel 60% dei casi.

Ma non è sempre stato così. Nel 2003-2004, decine di migliaia di disoccupati e lavoratori hanno sfilato spontaneamente ogni lunedì in molte città della Germania per bloccare le riforme Schröder. Affermatosi soprattutto ad est, dove gli slogan facevano apertamente riferimento alle “manifestazioni del lunedì” dell’autunno 1989 contro il potere, il movimento si diffuse rapidamente anche ad ovest. “I sindacati hanno tergiversato molto”, ammette Ralf Krämer, segretario di Ver.di incaricato di questioni economiche. “La loro posizione era tanto ambigua, che due rappresentanti hanno partecipato alla commissione Hartz, uno era del sindacato DGB (Confederazione Tedesca dei Sindacati) e l’altro dei nostri.” Oltre ai due sindacalisti, la commissione comprendeva due eletti, due universitari, un alto funzionario e sette top managers della Deutsche Bank, del gruppo chimico BASF e della società di consulenza McKinsey.

Conclusioni

Nel novembre 2003, tra lo stupore generale, una manifestazione organizzata al di fuori del contesto sindacale ha riunito 100.000 persone a Berlino (….). Cinque mesi più tardi altre manifestazioni si verificano a Berlino, Stoccarda e Colonia, circa mezzo milione di oppositori si riuniscono a manifestare. Un numero mai visto dal dopo guerra. Questa volta i direttori dei sindacati sfilano in prima fila: “Avremmo potuto vincere”, afferma il signor Krämer. “Ma la DGB ha avuto paura di perdere il controllo e si è astenuta dal convocare altre mobilitazioni. Le manifestazioni del lunedì si sono trovate isolate e il movimento si è spento. Abbiamo perso un’occasione storica. Bisogna dire che non fa parte delle cultura sindacale tedesca, contestare le decisioni di un governo democraticamente eletto, anche se a titolo personale me ne pento.

Curiosamente, questo fallimento non ha determinato una riflessione su un possibile cambiamento di strategia. Presso Ver.di, facente parte di DGB, i dirigenti non hanno ritenuto utile di aprire un dibattito sull’illegalità degli scioperi “politici”. Questa è una curiosità del diritto tedesco, che impedisce di indire uno sciopero contro le leggi giudicate nefaste per gli interessi dei lavoratori.

Sciopero generale?” L’espressione provoca un’espressione dubbiosa in Mehrdad Payandeh, membro del comitato direttivo federale di DGB. “Per noi, uno sciopero ha senso solo se fallisce la negoziazione per un aumento dei salari nei settori dove siamo rappresentati. La nostra legittimazione è rappresentata dagli iscritti e non dalla strada. Non siamo come quei paesi del Sud dove la gente sciopera per motivi meno seri!

Nella sua maniera eloquente e calorosa, il signor Payandeh incarna piuttosto bene la cultura sindacale descritta da Krämer. “Certamente, che sono contro le sanzioni Hartz IV e la precarietà”, esclama, “ma le leggi votate dal Bundestag non sono di nostra competenza. Il fine, per noi, è di difendere i nostri lavoratori all’interno degli accordi di settore.” Tali accordi esistono solo nei settori metallurgico e chimico, perciò l’industria dei servizi assorbe una mano d’opera sempre più asservita e meno protetta.

Le lotte contro le riforme Hartz hanno nondimeno lasciato una traccia profonda nel paese, indebolendo considerevolmente l’SPD, che ha perso 200.000 iscritti dal 2003. Inoltre hanno rimodellato lo scenario politico, spingendo una parte dei dissidenti del partito di Schröder a fondersi nel 2005 con i neo comunisti del Partito del Socialismo Democratico (PSD), al fine di creare il nuovo gruppo Die Linke (La Sinistra). Al momento questa formazione politica è l’unica formazione all’interno del Bundestag che si batte per l’abrogazione delle riforme Hartz. A seguito di tali proteste, è anche nata una vasta rete di disoccupati (come il collettivo Basta) risoluti a far sentire la propria voce.

Per noi la Francia era esemplare”

Nel momento in cui in Francia ci si interroga sulla possibilità di ostacolare gli ardori riformatori di Macron, numerosi sindacalisti tedeschi attendono. “Le riforme Macron ci inquietano parecchio, poiché rischiano di spingere i salari verso il basso e di diffondersi a macchia d’olio”, afferma il Dierk Hirschel, dirigente di Ver.di. “Per noi, la Francia è sempre stata esemplare” aggiunge il suo collega Ralf Krämer. “L’evoluzione attuale appare tragica. Speriamo che i sindacati francesi non ripeteranno i nostri errori e si sapranno mostrare più aggressivi di noi”.

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2 Commenti


  • Federico

    Analisi assolutamente precisa da far girare il più possibile, perché smonta quella sorta di “mito tedesco” che si è diffuso qua in Italia in questi anni (anche a sinistra) e che dipinge la Germania come il paradiso capitalistico in terra con la sua borghesia illuminata. Grazie per averlo pubblicato.


  • ndr60

    La Germania è un paradiso per l’1% dei suoi abitanti, mentre per il restante 99% è, come da titolo, un inferno. Peccato che nessuno dei giornaloni e dei tg riuniti lo dica.

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