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4 novembre 1918

Si celebra, ogni anno, il 4 novembre 1918, la data di conclusione per l’Italia della Prima guerra mondiale. Doverosamente, si tengono ovunque commemorazioni dei 600.000 caduti, prevalentemente giovani vite spezzate dal conflitto. Tuttavia, bisogna anche ricordare le motivazioni profonde della partecipazione alla Grande guerra e le sue conseguenze. Le guerre non avvengono per prescrizione divina.

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L’avvento del XX secolo era stato salutato con fiducia. Ma nel 1914 la guerra mondiale irrompeva a frantumare il contesto di ottimismo delineato, fra l’altro, dalla cultura filosofica positivistica. Ben presto il conflitto assumeva i connotati di una ‘inutile strage’, secondo la definizione che ne diede il Pontefice Benedetto XV. Il mondo, già sotto tensione per via della competizione coloniale, aveva ripiegato verso il nazionalismo, consolidando la tendenza già manifestatasi nei decenni precedenti.
L’Europa vedeva due gruppi di potenze rivali. La guerra diveniva così il modo attraverso cui misurare i rapporti di forza, dal cui esito sarebbe scaturito un altro ordine internazionale. Le popolazioni dei Paesi europei aderirono entusiasticamente alle dichiarazioni di guerra rese agli avversari da parte dei propri governanti, in una sorta di abbraccio collettivo alla nazione. (Con parziali eccezioni nei movimenti socialisti; secondo alcuni si trattava solo di un conflitto intercapitalistico).

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Quando l’Impero Austro-ungarico inviò l’ultimatum alla Serbia – nel luglio del 1914 – il Regno d’Italia si trovava impegnato nella Triplice alleanza. (Il trattato che, fin dal 1882, legava Italia, Austria e Germania). Nel giro di pochi giorni, come si sa, la situazione precipitò in un vortice di dichiarazioni di guerra. Da una parte gli Imperi centrali (austro-ungarico, tedesco e turco), dall’altra Francia, Gran Bretagna e Russia zarista. A quel punto si pose il dilemma, per il governo italiano, se agire nel rispetto della Triplice alleanza o se ‘denunciarla’.
Per i suoi fautori, la guerra conto l’Austria veniva vista come prosecuzione e completamento dell’epopea risorgimentale. L’obiettivo era terminare l’unificazione nazionale, con l’annessione delle terre irredente popolate da genti di lingua italiana. Combattere al fianco degli austriaci – che detenevano Trento e Trieste – appariva un tradimento dello spirito patriottico proprio della tradizione risorgimentale.
In quel momento, comunque, i sostenitori dell’ingresso nel conflitto non prevalsero. Giovanni Giolitti si era dimesso dalla carica di Presidente del Consiglio all’inizio del 1914 ma poteva controllare la maggioranza della Camera. Egli – il quale non era certo animato da visioni di gloria, tanto da avere ‘subito’ la spedizione in Libia del 1911/1912 –, era dell’avviso che fosse meglio assumere una posizione neutralista.

Gli era succeduto Antonio Salandra, più ambizioso sul piano militare. Ma nonostante l’Italia potesse tecnicamente considerarsi libera rispetto alla Triplice alleanza – dato che l’Austria aveva disatteso i suoi obblighi di informare l’alleato circa l’aggressione alla Serbia e, in quel frangente, non aveva offerto i previsti ‘compensi’ – nel luglio 1914 il governo optò per la neutralità.

Tuttavia, qualcosa si muoveva. Il ministro degli esteri, Sidney Sonnino, non nascose l’opportunità di compiere dei passi nella direzione di un’espansione del Regno d’Italia verso la zona dalmata della costa adriatica. Inoltre, nel dicembre 1914 egli puntava ancora ad ottenere i ‘compensi’ dovuti all’Italia sulla base del trattato della Triplice alleanza. Magari la cessione di Trento e Trieste come ‘dono’ per la non belligeranza favorevole all’Austria. Tuttavia, l’Imperatore Francesco Giuseppe – che aveva avviato la guerra per timore delle spinte nazionalistiche disgregatrici dell’Impero austro-ungarico –, non poteva accondiscendere.
La prospettiva di entrare nel conflitto contro l’Austria guadagnava terreno. L’intervento avrebbe sanzionato il rango di potenza dell’Italia; se poi la guerra avesse destabilizzato l’equilibrio europeo, cosa avrebbe guadagnato il Paese da un nuovo assetto internazionale alle cui trattative non avesse avuto parte in causa?
Francia e Gran Bretagna avevano più da offrire rispetto agli Imperi centrali. Anche perchè non avrebbero avuto da scapitare riguardo ai guadagni italiani.

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Le suggestioni della frontiera alpina ‘naturale’, il controllo dell’Adriatico, il ritorno alla madrepatria delle popolazioni italiane di stanza nei territori sotto governo straniero. E quindi il nazionalismo, l’irredentismo, il futurismo.

La guerra veniva sempre più vista quale fonte di “purificazione morale”, di liberazione da un passato di rovine, di ringiovanimento del Paese, di promettente dinamismo, perfino di ispirazione artistica.
I socialisti si spaccarono sul tema dell’ingresso in guerra. Benito Mussolini, passato al fronte guerrafondaio, fondò un suo giornale (il Popolo d’Italia) e fu espulso dal partito.
Nel febbraio del 1915 Salandra diede il via ai contatti diplomatici con la Gran Bretagna. Le probabilità di vittoria dell’Intesa prendevano corpo. La Russia guadagnava posizioni nei Carpazi. E così, il 26 aprile si giunse alla firma del Patto di Londra. Tuttavia, soltanto dopo – il 4 maggio –, l’Italia recedette ufficialmente dalla Triplice alleanza. Salandra e Sonnino fecero tutto in autonomia, ignorando il Parlamento e persino lo Stato maggiore delle forze armate.
Il già ministro del Tesoro e dell’Industria, Francesco Saverio Nitti, definì l’accordo di Londra – con il quale Salandra faceva scendere il Paese in guerra – un ‘monumento alla follia’. In effetti, avere dapprima a lungo tergiversato e avere poi repentinamente cambiato fronte, non costituiva un particolare punto d’onore per l’Italia (un aspetto che avrà un suo peso al tavolo della pace).
Infine, la piazza. Nel maggio del 1915 lo schieramento interventista fomentò numerosi disordini. La sua propaganda era guidata da studenti universitari e intellettuali, che sostennero la politica di Salandra. I moti, sempre più accesi, erano creati artificiosamente e si scagliavano contro la volontà dichiarata della maggioranza parlamentare.
Dalla Francia – dove si trovava per sfuggire ai creditori – venne richiamato Gabriele D’Annunzio, che subito si diede ad infiammare l’opinione pubblica con orazioni nel segno di un violento patriottismo. La guerra venne da egli declamata come la più feconda “matrice di bellezza e di virtù” mai apparsa sulla terra.

Così, salì la febbre in favore dell’intervento. Ormai, anche il Re, Vittorio Emanuele III, era impegnato nei confronti del fronte interventista. E anche il Parlamento finì per cedere. Il 23 maggio venne dichiarata la guerra all’Austria. (Peraltro, alla sola Austria e non anche alla Germania). Il Paese si era abbandonato all’isteria nazionalistica dilagante.

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Nonostante la vittoria, le conseguenze della guerra furono tutt’altro che rosee. Le ambizioni italiane non vennero pienamente soddisfatte dalle condizioni di pace stipulate nel 1919. Il trattato di Saint-Germain con l’Austria del settembre 1919 riconosceva la cessione all’Italia del Trentino, dell’Alto Adige, dell’Istria e dell’Alto Bacino dell’Isonzo, ma non veniva incontro alle altre pretese territoriali relative alla Dalmazia e, soprattutto, a Fiume (il che darà luogo al noto spirito di revanscismo della ‘vittoria mutilata’ e allo strascico del colpo di mano attuato a Fiume da D’Annunzio).

Forse, il capo del governo Vittorio Emanuele Orlando, avrebbe potuto pensare di adattare alle circostanze le sue rivendicazioni e di preparare l’opinione pubblica alla necessità di ridimensionarle.
Inoltre, il Paese uscì dalle ostilità belliche prostrato dall’immane sforzo sostenuto e segnato da nuove fratture sociali.
Più che per ragioni generali di giustizia e libertà dei popoli, l’Italia era entrata in guerra perchè aspirante al ruolo di potenza nazionale espansionistica.
Ma dal nazionalismo esasperato sarebbero poi derivati, in aggiunta al già salato conto economico e sociale della Grande guerra, i dolori della Seconda guerra mondiale. Come la tragedia del fronte orientale, concatenazione della fascista italianizzazione forzata dei popoli slavi dell’Istria e della costa adriatica già contesa.

Soprattutto, dall’impresa bellica uscì in frantumi e irrimediabilmente screditato lo stato liberale. Una fucina per la generazione delle condizioni favorevoli per l’approdo del Paese alla dittatura fascista.

Fu infatti relativamente agevole, in seguito, il superamento del regime parlamentare, già messo in secondo piano durante i prodromi del conflitto e presentato come un luogo di intralcianti lungaggini politiche.
Nell’imminenza della guerra, Giolitti aveva paventato che “quella la quale poteva apparire una facile e attraente impresa espansionistica, avrebbe potuto rivelarsi il primo passo verso una rivoluzione interna”. E aveva fatto presente che lo stesso risultato – in termini di incrementi geografici – si sarebbe magari potuto ottenere sul piano diplomatico.
Mussolini, che era stato particolarmente attivo nella campagna pro bellica, nel 1915 aveva tratto vanto dal fatto che il popolo fosse stato trascinato alla guerra da una minoranza. “Una minoranza dinamica può avere la meglio sulla massa inerte e disimpegnata”, aveva detto. La storia ebbe a ripetersi nel 1922, con il capo del Fascismo nel ruolo del protagonista.

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