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E’ un altro mondo, bellezza!

Sabato prossimo a Roma, la Piattaforma Sociale Eurostop terrà la sua assemblea nazionale. I temi in discussione indicano la necessità e l'obiettivo di un passaggio politico importante, con di una tabella di marcia conseguente.

Alle spalle ci sono scelte e iniziative che in qualche modo hanno segnato “l'anno politico” appena concluso. Dalle due giornate nazionali contro la guerra e la Nato di gennaio e marzo, nel deserto totale di mobilitazioni su questo tema; al convegno di Napoli in maggio, che ha discusso la campagna sull'Italexit dall'Unione Europea e l'euro e lanciato le mobilitazioni di autunno sul referendum costituzionale, sfociate nella due giorni del No sociale del 21-22 ottobre e la sconfitta del governo Renzi. Un bilancio niente affatto negativo dunque.

Ma Eurostop ha deciso di misurarsi con sfide all'altezza dei tempi di ferro e di fuoco che ci è toccato di vivere. A cominciare dalla madre di tutte le contraddizioni: chi è il nemico da battere per ridare una prospettiva alle esigenze di cambiamento politico e sociale?

Su questo, nel campo della sinistra tradizionalmente intesa, le risposte sono diventate inevitabilmente divisive.

Da tempo le forze politiche, sindacali e sociali che hanno animato la Piattaforma Eurostop, hanno indicato i tre apparati del vincolo esterno – Unione Europea, Eurozona e Nato – come il nemico da battere e le strutture da dissolvere, lavorando per la fuoriuscita del nostro paese da queste tre organizzazioni. A sinistra invece si continua a confondere – spesso inspiegabilmente – l'idea di Europa con l'Unione Europea e i suoi trattati; una perdurante fesseria, erede di un europeismo asettico e assunto, senza alcuna analisi critica, come destino manifesto.

L'Unione Europea si è rivelata invece nel tempo come l'apparato edificato dalle classi dominanti per condurre la guerra contro il lavoro e i lavoratori, e per partecipare a tutto campo alla competizione globale che ha sostituito la globalizzazione. QUesta consapevolezza è ormai maggioritaria a livello popolare. Ovunque si voti sui diktat europei, il "no" prevale nettamente. L'avvento di Trump negli Usa ha ora sancito anche formalmente questa realtà che in molti si sono rifiutati di vedere per troppo tempo (magari accanendosi su un Ttip che non sarebbe mai stato firmato), fin quando “il cielo gli è caduto sulla testa”.

Adesso non solo il mondo è cambiato, ma sono le forze di destra quelle che appaiono più organizzate e influenti per dare un segno reazionario alle esigenze di cambiamento che provengono da una crisi senza via d'uscita e al malessere montante dei settori popolari. Il dato che fa la differenza è che la spinta al cambiamento, diversamente dal passato, non si manifesta tramite l'acutizzazione e l'estensione dei conflitti sociali, ma direttamente sul piano politico, con il “voto per vendetta” diretto contro l'establishment.

Che queste esigenze si stiano manifestando, anche in modo decisamente spurio, lo abbiamo verificato con il referendum o le ultime elezioni amministrative in Italia, con la Brexit in Gran Bretagna e addirittura con la vittoria di Trump. E' una spinta alla rottura dei meccanismi della globalizzazione e al cambiamento, ma niente affatto progressista in sé; spesso – anzi – convive con pulsioni e rabbiosità maldirette e malriposte.

Ma è lavorando su questa contraddizione che un progetto politico, con una almeno sufficiente credibilità e radicamento sociale, può trasformare la “rottura” in trasformazione dello stato delle cose presenti. I balbettii sulla democratizzazione dell'Unione Europea e la riduzione del danno causato dall'austerity hanno una influenza sui settori popolari pari a zero. E i risultati si vedono.

Quindi la campagna popolare per l'uscita dall'Unione Europea, dall'euro e dalla Nato, può avere la credibilità sufficiente, tanto più se a gestirla saranno forze politiche, sindacali e sociali che agiscono coordinate sul territorio nazionale ma con una visione internazionalista.

Infine, sullo sfondo, si profila una ulteriore contraddizione che non potrà che diventare lacerante nei prossimi mesi, soprattutto nel disorientato mondo della sinistra. Volendo richiamarsi la storia, potremmo dire che ci si ritroverà in una situazione analoga alla divisione nel voto sui “crediti di guerra”, che lacerò il movimento operaio alla vigilia della Prima Guerra Mondiale.

All'epoca i grandi partiti socialdemocratici finirono per spaccarsi tra il sostenere o il combattere ognuno il proprio imperialismo, dentro la carneficina che si andava scatenando, prima nelle colonie e poi nelle trincee in Europa. Oggi è fin troppo visibile che assisteremo al richiamo a stringersi intorno al proprio imperialismo (quello europeo attraverso la Ue), per contrastare il pericolo Trump negli Usa o il dispotismo di Putin in Russia. Già si intravedono intellettuali o militanti, sindacalisti o blogger, disposti ad arruolarsi nuovamente nelle fila dell'europeismo giustificandone le scelte (incluse quelle, semprepiù evidenti, in materia di politica militare). Praticamente scatterebbe la stessa trappola che ha funzionato in Italia con quasi venti anni di antiberlusconismo, che è servito a coprire le scelte antipopolari dei governi di Maastricht (Amato, Ciampi, Prodi, Monti, Renzi).

E' evidente che siamo dentro un cambiamento di fase storica e che questo sarà tumultuoso, spurio, con più zone grigie che nitide fotografie in bianco e nero su amici e nemici. Ma rinunciare a misurarsi con questo livello di contraddizioni e individuare i percorsi che hanno la possibilità di volgerle in positivo, sarebbe un suicidio politico che lascerebbe tutto il campo sociale alle destre.

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