Il linguaggio diventa più esplicito, i tempi stretti, i toni ultimativi. Il problema delle riforme ha almeno due corni, sovrapposti e scambiabili nella strategia delle imprese, ma non in quella berlusconia. E tanto meno compatibile con gli interessi dei lavoratori.
Per “riforme” infatti Confindustria intende sia l’azzeramento dello “stato sociale” sia il disboscamento delle posizioni parassitiche incistate ai vertici dei centri di spesa amministrativi (stato, regioni, provincie, comuni), in contatto simbiotico col mondo degli appalti e dei subappalti. Sul primo obiettivo ha trovato per molti anni un’assoluta sintonia col governo (e soprattutto col ministro anti-lavoro, Maurizio Sacconi), incassando successi e regali che non erano probabilmente neppure sperati (l’art. 8 della manovra è soltanto l’ultimo e annuncia la controriforma reazionaria dello “Statuto dei lavori”).
Ma anche questo non basta più, nella crisi. L’obiettivo è allora rimuovere la vera base di massa del blocco berlusconiano, affondando la mannaia anche sul sottobosco al limite della criminalità (sia nel Mezzogiorno che in Lombardia, ormai), delle società finte pubblico-privato, e quant’altro si riesca a immaginare di immondo (e totalmente improduttivo).
Qui si consuma la rottura con lo psico-nano e la sua corte di mantenuti/e. Qui parte anche la vera offensiva padronale per disegnare la società a misura di “impresa concorrenziale orientata all’export”. Dove i problemi di “governabilità” vengono affidati alla polizia a cavallo di un drone…
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Francesco Piccioni
Fermi Crescita quasi a zero, redditi crollati di 14 punti, consumi in rapidissima diminuzione, tassazione a livelli record. «Non è più l’ora di spot elettorali» CONFINDUSTRIA La Marcegaglia prende i dati sulla crisi e chiede una «
«Tempo scaduto», caro Silvio
Già, le riforme, parola magica che ottunde più che far capire. Per Confindustria l’elenco è stato fissato da alcuni mesi, con tanto di «manifesto» sul giornale aziendale (Il Sole 24 Ore). e si traduce in radicale ridisegno del modello sociale, tagliando via le parti che hanno fatto la civiltà europea del dopoguerra (pensioni, sanità pubblica, istruzione a tutti i livelli, assistenza, diritti e tutele). Per vedere se qualcosa può essere messo in cantiere gli industriali hanno incontrato il governo, ieri pomeriggio, rappresentato da Giulio Tremonti, Maurizio Sacconi e Paolo Romani. Il primo ha continuato a tacere, come fa da giorni. Il secondo ha promesso – per la milionesima volta – un altro giro di «modernizzazione delle relazioni industriali», tale da riportarci direttamente a Manchester 1843. E poi tante privatizzazioni delle multiutility municipalizzate, su cui diversi imprenditori italiani e stranieri (anche cinesi) hanno messo gli occhi da tempo, in barba al referendum di giugno, che qualcosa dovrebbe pur sempre vietare.
Il terzo è rimasto ancor più sul vago, ammettendo che nemmeno si è entrati nel merito («abbiamo fatto una ricognizione delle cose già fatte»), senza toccare «il nodo delle risorse» (con quali soldi si faranno gli investimenti per «rilanciare la crescita»?). Difficile che abbiano potuto entusiasmare Giampaolo Galli, direttore generale di via dell’Astronomia, e Guseppe Mussari, presidente dell’Abi (le banche italiane).
Specie se si tengono presenti i dati illsutrati nella mattinata. Il Centro studi diretto da Luca Paolazzi ha infatti rivisto le stime di crescita elaborate solo tre mesi fa. Invece di un aumento del Pil dello 0,9% per quest’anno si avrà solo lo 0,7; ma ancor peggio andrà il prossimo, quando al posto di un superottimistico +1,1% dovremmo avere un miserando +0,2.
Il quadro globale è pessimo, siamo al quarto anno di crisi; il credito è troppo selettivo, gli investimenti non si vedono, il «mercato del lavoro è imballato» (tradotto: ancora non possono licenziare a piacimento). L’Italia è riuscita a far peggio degli altri paesi industrializzati (Grecia esclusa). L’impatto della recessione è stato infatti durissimo e si è portato via il 6,9% del pil in soli quindici mesi. Di lì in poi, ha fatto il resto la «malattia della lenta crescita», fenomeno tutto italico e legato – ma questo Confindustria non lo dice – alla scarsa evoluzione delle «nostre» imprese: piccole, arretrate, senza grande specializzazione (tranne occasionali isole di eccellenza), abituate a cavar bassi profitti da una forza lavoro pagata una miseria.
Paga dazio l’occupazione, con 729.000 posti in meno rispetto ai livelli pre-crisi; e quindi i consumi, in continua discesa, stressati anche da una pressione fiscale che arriverà l’anno prossimo – per effetto di ben tre manovre» in nove mesi – al record storico del 44,1%.
Bisogna dire che anche i super-tecnici di viale dell’Astranomia hanno i loro bei buchi di logica. Ad esempio. Quando si devono descrivere i livelli salariali praticati dalle imprese – va da sé, visto il «committente» – si dice che «le retribuzioni difendono il potere d’acquisto», che comunque «non può essere aumentato» in assenza di «significativi guadagni di produttività». Quando invece si analizzano gli «sbocchi di mercato» per le merci prodotte, ci si lamenta dei consumi che «crollano»; anzi, «le famiglie saranno indotte ad abbassare ulteriormente la già notevolmente intaccata capacità di risparmio». Del resto, viene ammesso, nel 1996 il reddito medio degli italiani valeva il 107% rispetto alla media europea, l’anno prossimo varrà appena il 93%. Insomma: volete dipendenti in grado di comprare qualcosa con gli stipendi che date, oppure preferite tenerli ancora più bassi?
La proposta «operativa» si condensa in una delle frasi a effetto che alludono nascondendo: «ci vuole uno short sharp shock». Ossia una terapia d’urto a breve, anzi, subito. Se no, avanti un altro. Con il loro programma bene in testa, naturalmente.
Roberto Tesi
LAVORO/OCSE
44,5 milioni a spasso In Italia è precario il 46,70% dei giovani
A fronte di una situazione occupazionale globale estremamente grave, in Italia è, addirittura, drammatica, per quanto riguarda i giovani: a fine 2010, secondo l’Employment Outlook dell’Ocse, il 27,9% dei giovani tra i 15 e i 24 anni è disoccupato e il 46,7% di chi invece lavora ha un impiego temporaneo e quindi poco pagato. E le prospettive non sono certo brillanti: ieri la Bce ha parlato di crescita molto moderata nell’area euro e la Commissione europea ha tagliato le sue stime sulla crescita del prodotto interno lordo italiano a +0,7% nel 2011 rispetto al +1% ipotizzato nelle previsioni di primavera. Pessimista anche la Confindustria che ha ridotto le previsioni di crescita del Pil sia per l’anno in corso (0.7%) che per il 2012 (appena lo 0,2%).
Da notare – con riferimento al 46,7% di giovani che lavorano con un contratto precario, che questa percentaule è cresciuta di 9 punti dall’inizio della crisi, nel 2007. In forte crescita è anche il tasso di disoccupazione giovanile, balzato dal 20,3% del 2007 all’attuale 27,9%, di molto superiore alla media Ocse (16,7%). Il tasso di disoccupazione giovanile, riporta ancora lo studio Ocse, è più alto tra le donne, 29,4%, che tra gli uomini, 26,8%. Quanto al salario medio, in Italia nel 2010 è stato di 36.773 dollari contro una media dell’Ue a 21 di 41.100 dollari e dell’Eurozona a 15 di 44.904 dollari. Il salario medio italiano è superiore solo a quello di Spagna (35.031), Grecia (29.058) e Portogallo (22.003), ma inferiore a quello di Francia (46.365 dollari), Germania (43.352) e Gran Bretagna (47.645).
Un problema estremamente preoccupante in tutti i paesi è quello della disoccupazione di lunga durata: nei 34 Paesi membri, a fine 2010, il 48,5% dei disoccupati era senza lavoro da almeno 6 mesi (contro il 41% dell’anno precedente) e il 32,4% da almeno 12 mesi, contro il 24,2% del 2009. Per quanto riguarda l’Italia, i disoccupati senza lavoro da 6 mesi o più sono il 64,5% (in aumento di 3 punti percentuali rispetto al 2009) e quelli senza lavoro da un anno o più il 48,5% (4 punti percentuali in più rispetto al 2009). «Fasi prolungate di disoccupazione – sottolinea l’Ocse nel rapporto – sono particolarmente penalizzanti, perché aumentano il rischio di una marginalizzazione permanente dal mercato del lavoro».
Altro dato preoccupante riguada il part-time: in Italia rispetto al totale, il 76,9% sono donne. Le lavoratrici part-time rappresentano il 31,1% del totale delle donne occupate contro il 6,3% tra gli uomini. Il lavoro a tempo parziale (meno di 30 ore settimanali, secondo la definizione Ocse) rappresenta in Italia il 16,3% del totale dei posti di lavoro. Per l’Ocse, infine, in Italia il sistema fiscale e di welfare «gioca un ruolo minore nel proteggere le famiglie contro le conseguenze di grandi contrazioni del reddito da lavoro». Per gli italiani «grandi riduzioni del reddito da lavoro individuale (per esempio in caso di perdita del posto di lavoro) tendono a tradursi in contrazioni del reddito disponibile familiare superiori a quelle osservate negli altri Paesi Ocse».
Una terapia d’urto, ma subito
di Luca Paolazzi
Il tempo è scaduto. Il tempo delle divisioni, delle discussioni sterili, dei rinvii. Il tempo dietro cui trincerarsi per difendere il proprio spicchio di posizione di rendita, l’interesse particolare. Il tempo di scaricare sugli altri, soprattutto i giovani, i costi degli aggiustamenti necessari, ormai vitali.
L’Italia era già ai minuti di recupero dell’ennesimo supplementare che si era concessa.
La crisi non lascia più nemmeno un secondo da perdere e impone a tutto il Paese, assieme al risanamento dei conti pubblici (che non ha alternative, ma ci sono vie diverse dalle alte tasse per raggiungerlo), di adottare una terapia d’urto, uno shock immediato e violento contro il mal di lenta crescita che affligge la società e l’economia italiane da troppi anni. Un male contratto nei difficili anni 70 e forse già alla fine dei 60: ha ragione il ministro Sacconi nell’additare gli errori di allora come l’origine dei guai. Altri ne sono stati compiuti dopo, anche di recente.
È un male che ha responsabilità bipartisan, non essendo stato affrontato in modo adeguato da maggioranze multicolori e governi politici e tecnici. E si è via via esteso, degenerando fino a portare alla stagnazione economica attuale. Una stagnazione che non è un destino segnato, una maledizione biblica, ma può essere vinta. Subito.
La terapia parte prima di tutto dal riconoscimento del male, del quale sono chiari i sintomi. Eccone quattro. Il Pil per abitante italiano sarà nel 2012 del 7% sotto i livelli del 2007 e pari al 93% della media dell’area euro, dal 106% del 1991.
La competitività italiana è scesa del 33% dal 1997, misurata sulla dinamica del costo del lavoro e della produttività. I conti con l’estero italiani sono strutturalmente e pesantemente in passivo: 4% del Pil nel 2011, nonostante la fiacca domanda interna. Le famiglie italiane non sono più le formiche di un tempo: è l’altra faccia di un reddito calante e della disperata difesa del tenore di vita.
Questa terapia prosegue con il buon esempio di chi deve somministrarla ai concittadini che ha l’onore di rappresentare; dunque, con il drastico abbattimento dei costi della politica (doppi-tripli che negli altri Paesi avanzati). Non è qualunquismo ma richiesta di un atto di alta politica.
La terapia è composta da un insieme di misure che vanno assunte tutte insieme, anche se nessuno ha la pretesa che abbiano efficacia immediata. Queste misure, sommariamente elencate nell’ultimo scenario presentato ieri dal CsC, sono in grado di raddoppiare il Pil italiano nel lungo periodo.
Troppo lungo per ricavarne un dividendo elettorale? No, perché il segnale di svolta, fondato su azioni e non dichiarazioni e annunci con la longevità e la leggerezza di una farfalla, rovescerebbe le aspettative, ridarebbe fiducia a famiglie e imprese, imprimerebbe un forte impulso positivo ai mercati. Gli operatori anticiperebbero nei comportamenti parte degli effetti di quelle riforme e già dall’anno prossimo la crescita aggiuntiva del Pil potrebbe superare abbondantemente l’1%, e accelerare successivamente.
Nessuno pensa al miracolo. Ma all’investimento nel futuro, come hanno fatto i tedeschi dieci anni fa e ora raccolgono i frutti. La posta è alta: la vitalità di decine di migliaia di imprese; la possibilità di milioni di posti lavoro, di cui i rappresentanti dei lavoratori dovranno rendere conto; le pensioni di domani e di oggi; le speranze dei giovani; il benessere faticosamente conquistato dalle generazioni passate e già eroso, in piccola parte; la solidarietà di uno stato sociale anche più ricco dell’attuale, ma più efficiente e rigoroso. Serve indicare la rotta, tenere la barra dritta e lavorare di lunga lena.
Sta in noi, come ama ripetere Carlo Azeglio Ciampi. Nessuno può chiamarsi fuori e sentirsi escluso dall’impegno. Con le imprese in prima linea a puntare su dimensioni e governance adeguate alle sfide globali. Senza più perdere tempo.
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