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iFu. L’ambivalenza rimossa di Steve Jobs

Steve Jobs ha fatto molto per essere catalogato tra i “grandi”. Aggiungerci “capitalisti” è tanto ovvio quanto inutile. Henry Ford merita un posto nella storia dell’umanità non certo per la sua bontà verso i suoi operai, ma per aver fatto dell’automobile un bene di consumo durevole alla portata di molti. Giusto o sbagliato che sia, il suo è stato un contributo visibile alla trasformazione del mondo.

La critica all’opera di Henry Ford – come a quella di Steve Jobs – deve intanto partire dal “prendere atto” del contributo originale e continuare a lavorare a quel livello.

Forse è più facile capirci facendo un esempio al contrario. Gli intellettuali del capitale hanno il problema Karl Marx. Un grande, chi può negarlo? E come fare a “criticarlo”? Qualcuno prova a mettersi al suo livello, producendo più o meno gustose opere filosofiche, economiche o politiche. Altri – i nanerottoli incapaci di innalzarsi al livello della Ragione – si accontentano di piazzare battutine livorose (al livello più basso – perché anche tra i nanerottoli ci sono differenti altezze – c’è ancora chi scrive dopo 130 anni articoli su “ha fatto un figlio con la cameriera”, oppure “aveva la cameriera”, senza nemmeno cercare di conoscere la realtà dei rapporti sociali nella Germania di metà ‘800).

Ecco: i comunisti NON DEVONO MAI mettersi al livello dei nanerottoli. Ma confrontarsi con “la grandezza” individuale – che è una realtà di fatto: Marx, Lenin, il Che non sono “militanti qualsiasi” – andando alla radice della struttura sociale che ha prodotto quei “fenomeni”. Altrimenti non capiremo il mondo che abbiamo davanti. E quindi rinunceremo a trasformarlo, accontentandoci di fare come la famosa volpe con l’uva per lei irrangiungibile: “tanto è acerba”.

Proponiamo qui tre contributi diversi che affrontano l'”enigma Jobs” al giusto livello.

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da Infoaut

 iFu. L’ambivalenza rimossa di Steve Jobs

Diradatasi parzialmente la cortina di incenso attorno alla morte di Steve Jobs, ed il cordoglio unanime ed ovattato, occorre fermarsi a riflettere criticamente sulla sua parabola e sul suo lascito nel nostro presente, e trarne le opportune lezioni.

Steve Jobs è stato un capitalista nell’accezione più classica di questo termine: ha saputo appropriarsi della ricchezza creativa della controcultura e della cooperazione degli anni ’70 ed ’80 statunitensi e servirsene per creare e veicolare bisogni e tendenze di mercato. Destreggiandosi, con abilità da riconoscere, tra cyber-èlite e masse, contribuendo alla perdita d’aureola delle prime ed alla messa a lavoro generalizzata dell’intelligenza delle seconde, tramite interfacce sempre più semplificate.

In particolare, l’attraversamento della scena dell’Homebrew Computer Club, fucina di numi dell’ICT da Richard Stallman a Lee Felsenstein è stata un prerequisito indispensabile per Jobs per agire pienamente nella successiva fase di socializzazione del web. Molti attacchi vengono rivolti a Steve Jobs da parte del mondo hacker, che lo accusa di aver svenduto al grande business l’innocenza della comunità amatoriale – profittando egli stesso del decisivo apporto tecnico del cofondatore di Apple Steve Wozniak.

Il che è vero, tanto più inserendosi in un graduale e generalizzato processo di cattura e massificazione del desiderio degli informatici presso il grande pubblico che porterà al declino dell’autonomia dei cosiddetti cybersoviet.

Ma ci si deve anche chiedere: si potevano socializzare diversamente queste spinte? Cosa ha portato a non farlo?

Per ironia della sorte, il gran ritorno di Jobs alla guida di Apple avviene a fine anni ’90, in concomitanza con l’ascesa dell’open source come strategia di sviluppo e commercializzazione del software libero; un processo storico che non lascia indifferente l’uomo di Cupertino, come prova l’implementazione di Mac OS X. Ma mentre l’open source facilita la circolazione del codice – pur certamente in maniera interessata ed ambigua – la nuova Apple con l’avvento dei nuovi device di consumo di beni digitali fa presto a trincerarsi nell’approccio closed. IPod, iPhone, iPad: basta una lettera, quella “i” davanti, per conferire alla particolarità (l’individualismo, il prodotto personale e ricercato) un’identità e una dimensione collettiva.

Identità e dimensione collettiva soggette alle istituzioni telematiche made in Cupertino: iTunes, AppStore, iCloud. “Giardini recintati” in cui giacciono, prigionieri e commercializzati, quei beni digitali che in precedenza si reperivano attraverso i canali del peer-to-peer, su cui transitavano liberamente.

L’aura di Steve Jobs deriva anche da questo: dalla capacità di ricontestualizzare la “chiusura” come “esclusività”; e dallo spostare il baricentro dell’attenzione attorno ad un nuovo gadget chiuso dalla “paranoia” del produttore alla “curiosità” del consumatore. Il logo della mela è così diventato un catalizzatore di emozioni positive, ed apporlo a nuovi dispositivi ha reso possibile il boom di implementazioni capitaliste inizialmente di nicchia (il mercato dei tablet poi egemonizzato da iPad) o passate nell’indifferenza – se non diffidenza – generale (iCloud)

Con questo non vogliamo fermarci a ripetere “si, ma lui quell’invenzione l’ha copiata da qualcun’altro” (ovvio, se si pensa all’adozione da parte di Jobs di interfacce e tecnologie sviluppate dalla Xerox: abbiamo però sempre dato per scontato che la produzione di innovazione sia un processo collettivo, in quanto innervato da molteplici relazioni ed influenze), ma sottolineare come la socializzazione dell’innovazione da parte (e di parte) di Apple sia stata veicolata da una straordinaria capacità di torsione del presente, insita nel potere messianico del suo fondatore. Che si struttura a partire da una forte organizzazione della comunicazione: leadership (accentramento delle responsabilità interne di Apple sullo stesso Jobs), marketing (utenza Apple come status symbol), estetica (design e simbolismo), tutti interrelati nella costruzione spettacolare di eventi di massa come i keynote.

Così viene valorizzata a posteriori la ridondanza dell’innovazione (dell’interfaccia grafica alla Xerox non sapevano che farsene), i difetti dell’Iphone passano in secondo piano (attaccando quelli degli altri smartphone) o diventano motivanti sfide di hacking, gli operai-schiavi cinesi della Foxconn spariscono, il greenwashing partito al momento giusto accontenta le sensibilità ambientaliste. Non è facile per le voci critiche decostruire questi passaggi: ad esempio Phonestory, un edugame di Molleindustria per Iphone ed Android che illustrava il ciclo di produzione degli smartphone e le loro funzionalità di tracciamento, è stato rimosso dall’Apple Store senza preavviso.

Ma il traguardo più compiuto di Steve Jobs è stato quello di aver creato il primo vero brand emozionale dell’età dell’informazione attorno alla propria creatura, per spingerla inesorabilmente al centro del mercato: fino a diventare la prima azienda hi-tech al mondo per quotazione di borsa nel 2010. In maniera non dissimile da quanto realizzato da Henry Ford in epoca industriale.

Tutto a partire dallo spot del Macintosh del 1984, lanciato durante uno dei picchi più intensi della guerra fredda, in cui non si pretendeva di vendere un prodotto, ma la libertà dal grande fratello del consumo di massa. Il fatto che il culto della personalità di Jobs, e la sua concezione del mercato abbiano creato rapporti di forza altrettanto coercitivi è passata in secondo piano, perché intanto i clienti si sono trasformati in fan, gli oculati compratori in eccitati zeloti. Ed il fatto che l’operazione sia riuscita legando le emozioni ed i cervelli dei lavoratori della conoscenza alle macchine made in Apple – con la collaudata miscela di persistente ed effimero, design e spettacolo sopra descritta – non potrebbe essere più esplicativo.

Un modello di business da un lato rivoluzionario, dall’altro profondamente votato alla salvaguardia dell’esistente: che ha posto fine a qualunque pretesa di anarchia ed universalità della rete, tramite l’imposizione di rapporti economici mediati negli spazi angusti dei “giardini recintati”. Non è un caso che in queste ore la scomparsa di Jobs venga commentata da tante voci della grande industria discografica ed editoriale. Salvate dal tracollo, quando non confermate nei loro ruoli di potenti intermediari, grazie agli accordi stipulati a peso d’oro con la casa di Cupertino. Per tacere della canonizzazione in mondovisione del leader di Apple da parte di una classe politica cianotica, e incapace di esercitare lo stesso potere messianico sui propri subalterni in tensione.

Più importante che elencare gli elogi di lassù è mettersi in ascoltato delle voci dal basso, anche quando traboccanti di falsa coscienza. I necrologi dei fanboy più accaniti hanno ad esempio paragonato l’importanza della mela di Jobs a quella di Newton e al frutto proibito dell’Eden. Noi possiamo scorgere in questi slanci il riflesso di un’estetica della conoscenza e della morte, dal cambiamento della percezione del mondo alla consapevolezza della dipartita. Lo stesso fondatore di Apple allude nel celebre discorso di Stanford alla funzione della morte quale tramite di motivazione (rispetto al tempo individuale) e rinnovamento (rispetto al tempo universale). Un costrutto emotivo e simbolico potentissimo. Piegato in queste ore, tramite media tradizionali (tra cui le copertine patinate di Wired e dell’Economist) e rete internet, alla celebrazione, consacrazione e riproduzione del simulacro del self made man Steve Jobs. E con esso la perpetuazione del sogno americano, dell’ideologia californiana, dell’individualismo proprietario che ad esso sottendono.

In questo senso la scomparsa del CEO di Apple non è, semplicemente e cinicamente, “l’ultima grande campagna promozionale di Apple”, come alcuni l’hanno definita: bensì quella di un intero modello economico, culturale e relazionale.

E’ questa la sfida. Il capitalismo informazionale perde oggi uno dei suoi esponenti di punta, un grande persuasore e un abilissimo manipolatore di senso comune attorno alla qualità dei rapporti di produzione e consumo odierni.

Demistificare Jobs sottolineandone l’ambivalenza: è il primo passo per portare alla ribalta la brutalità dei rapporti economici del mondo che ha contribuito a creare. E stavolta, il turno di mordere la mela della conoscenza collettiva è il nostro.

InfoFreeFlow (@infofreeflow) per Infoaut

 

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Francesco Piccioni
ALLE RADICI DI UNA RIVOLUZIONE – Ambiente grafico e mouse hanno portato l’informatica a portata di tutti
L’idea geniale e semplice: «Un computer per chi non sa nulla di computer»

Prima di lui il computer «parlava» attraverso uno schermo nero. Dopo averlo accceso, in alto a sinistra compariva una stringa criptica – c:\ – e chi voleva usarlo doveva sapere cosa «chiedergli». L’elenco dei comandi da mandare a memoria (in DrDos, MsDos, Unix, ecc) era piuttosto lungo, complicato da numerose sottofunzioni e stringhe di testo. Al massimo ci si poteva servire di uno o due programmi – videoscrittura, avviando l’estinzione della dattilografia (e vari milioni di posti di lavoro), o il «foglio elettronico» per i ragionieri contabili. Sontanto chi aveva competenze vere di informatica riusciva a usarlo appieno. Uno strumento di nicchia, per cervelloni vagamente asociali, un mercato dai numeri limitati.
L’innovazione per cui Steve Jobs meriterà un monumento è racchiusa in un’idea semplicemente geniale: «il computer per chi non sa usare il computer». Quasi cento anni dopo ha rappresentato l’equivalente de «l’automobile per chi non sa nulla di meccanica».
Gli innovatori – anche nella storia delle teorie scientifiche – sono coloro che connettono insieme acquisizioni che vivevano tranquillamente separate. Anche nel caso di Jobs c’era già tutto: scheda madre, hard disk, ram, scheda video, sistemi operativi. La sua «aggiunta» si è concretizzata in un «ambiente grafico», dove i singoli componenti dell’hardware e i programmi venivano rappresentati in icone distinguibili, e un mouse per puntare l’area dello schermo da cui attivare le applicazioni.
Una rivoluzione. Improvvisamente tutto quel che c’era nella macchina diventava visibile e utilizzabile. Da chiunque. Non era necessario «sapere» quasi nulla sulla complessa struttura sottostante. Bastava «navigare» col mouse e cliccare. Bastava, in altri termini conoscere soltanto il proprio mestiere e utilizzare «il ferro» per farlo più rapidamente, precisamente. Meglio. I primi a capirlo e a innamorarsene perdutamente furono i grafici (dall’editoria al cinema), finalmente liberi dalle montagne di carte e di schizzi attraverso cui erano soliti partorire il prodotto finito. Seguirono i musicisti e decine di altri mestieranti di talento: tutti potevano finalmente concentrarsi soltanto sull’idea che volevano sviluppare. Il «Mac» gli dava tutti gli strumenti possibili, in vorticoso aumento di anno in anno.
Era una rivoluzione. Per di più «oggettivamente democratica». La tecnologia veniva bypassata – e blindata, nel caso della Apple, con un sistema operativo proprietario che selezionava a monte gli sviluppatori di applicazioni autorizzati a conoscere le «librerie dinamiche» – la creatività vedeva praterie sterminate davanti. Il mercato dei personal computer poteva finalmente svilupparsi a un ritmo da «terza rivoluzione industriale», abbattendo i costi con economie di scala colossali e conquistando decine di milioni di nuovi clienti ogni anno. I concorrenti – Microsoft in testa – furono costretti ad adeguarsi correndo. Copiando, in genere. Ma senza mai poter raggiungere la qualità dei «Mac». L’eterna inquietudine di Jobs ha imposto ai suoi prodotti continui salti in avanti nella «fruibilità». Non si accontentava del semplice aumento della potenza di calcolo (permessa dal raddoppio della velocità di clock ogni 18 mesi, per decenni). Ogni nuova generazione di oggetti doveva stupire, per polivalenza d’impiego e semplicità d’uso. Quindi per ampliamento delle possibilità individuali.
Questo risultato è una rivoluzione culturale irreversibile, finché ci sarà energia elettrica e reddito sacrificabile per i gadget elettronici. Con aspetti non sempre progressivi (molto di quello che si è guadagnato in «estensione» è andato perduto in «profondità»), ma irreversibili. Perché l’innovazione non ha mai una faccia sola.

da “il manifesto” dell’8 ottobre 2011

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dal blog di Odradek (www.odradek.it)

Il colpo del genio

Ho cominciato oltre venti anni fa con un Mac classic, e da allora, tra famiglia e lavoro sono transitati una ventina di modelli, forse più. Sono nell’ “ambiente”, e non ne sono mai uscito. Non solo, non sono mai riuscito a farmela con i PC, con i quali avevano invece dimestichezza i colleghi delle scienze dure e che trattavano i Mac come chincaglieria per signorine. Ciò va detto al fine di stoppare eventuali pregiudizi nei confronti del ragionamento che sto per fare.

Che l’attività e la filosofia di Steve Jobs abbiano incontrato una domanda precisa e diffusa di facilitazione nell’uso dell’informatica è fin troppo evidente. Che poi il personaggio l’abbia interpretata imprenditorialmente, capitalisticamente – e finanziariamente – , in maniera assolutamente geniale, è chiaro a tutti.

Un mondo continuo, fatto di elementi contigui, senza salti. Un mondo facilitato in cui i problemi sono stati previsti e risolti. Un mondo polito e levigato in cui è possibile trascorrere dalle immagini alla musica, dalle news agli “amici”, orizzontalmente e verticalmente, secondo una logica, una razionalità potente, ma ignota. Ignota nelle relazioni e nei processi. Cui affidarsi. In attesa di un mondo completamente asfaltato mentre sui finestrini al plasma di 50 pollici passano immagini precompilate.

Le unanimi espressioni di cordoglio per la sua morte sono autentiche e sincere, a partire da una gratitudine sentita e condivisa. Per quello che vale, e per non dare nell’occhio, anch’io condivido l’apprezzamento per l’uomo e la sua storia.

Mi domando, però, che cosa è rimasto fuori? Tutto il resto. L’inviluppo, la storia, le differenze. La formazione personale e individua. Il colpo del genio ha perfezionato la logica dell’esproprio. La logica di qualsiasi macchina “nuova” che ingloba l’esperienza di chi ha ingaggiato il corpo a corpo con quella precedente. Una filosofia “oltre il giardino”, tra Francesco Alberoni e Chance Gardner, ha confezionato il tutto. Ovvio. Ormai ovvio.

Vi facilito ma vi rendo dipendenti e incapaci di esercitare quella creatività che invece io ho concentrato e gestito al massimo grado. Eravate orgogliosi artigiani nell’interagire con la macchina, disponendovi secondo le vostre capacità a padroneggiarla.

Bon, adesso tutti uguali – e si vede – non ci sono percorsi differenziali. La creatività di uno ha azzerato la creatività di tutti. Tutti uguali davanti alla macchina. Sappiamo come è andata: eliminato l’operaio professionale – che pure la sua rivoluzione l’aveva fatta –, l’operaio massa esibì alla lunga la sua vociante debolezza.

Il consumatore massa non sarà da meno, perché, si sa, a consumare non ci vuole una grande specializzazione, soprattutto da quando c’è la macchina che sovrintende al consumo del/nel tempo libero.

claudio del bello

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