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Spagna. A fine corsa le forme classiche della “democrazia liberale”

Dopo il Belgio arrivò la Spagna: anche il paese iberico (dopo l’esperienza belga di qualche anno fa) è priva di governo da molti mesi e sono andate a vuoto ben due elezioni legislative generali.

Il sistema elettorale spagnolo, super collaudato per fornire responsi di governo in una dimensione bipolare più cespugli regionalistici, non ha funzionato rispetto allo spezzarsi in quattro parti del sistema dei partiti con l’emergere, sull’onda dei movimenti e del cosiddetto populismo dell’antipolitica, di due nuovi soggetti: Podemos sul versante di sinistra e Ciudadanos su quello di centro.

Nel frattempo però, con il governo uscente di Rayoy all’ordinaria amministrazione, il paese ha funzionato benissimo sia in economia, sia rispetto ai servizi e allo stesso ordine pubblico.

Ne parla Nadia Urbinati sulle pagine di “Repubblica” rilevando come, alla fine, emerga come concreto il mito di un nuovo ordine basato sulla “self governance society”.

Chi scrive queste note si permette di reiterare alcuni spunti di riflessione nel merito che, da qualche tempo senza alcuna pretesa di primogenitura, sta cercando di portare avanti.

La vicenda spagnola suggerisce un ulteriore momento di sviluppo del pensiero che può essere suggerito, a questo punto, da un aggiornamento d’analisi al riguardo della teoria della “microfisica del potere” elaborata a suo tempo da Michel Foucault per rispondere proprio all’evidenziarsi di quella evidente“confusione tra i poteri” cui si è appena accennato.

 Il filosofo francese, che si è cimentato negli ultimi tempi della sua vita (è scomparso nel 1984) sul tema della “biopolitica” a proposito proprio della “microfisica del potere” scriveva di “autogestione sociale”.

Una teoria che considerava il potere come una risorsa  circolante attraverso un’organizzazione reticolare.

Si tratta di un punto sul quale l’analisi di questi giorni non si è ancora soffermata abbastanza a fondo e che vale la pena riprendere.

Una riflessione da sviluppare attorno alla folle corsa che la modernità impone alla ricerca di un verticismo assoluto nella detenzione del potere, nell’assolutismo dell’io come essere esaustivo della finalità umana quale  punto di ricerca dell’assolutismo politico.

Emerge un contrasto evidente, si sente uno stridore terribile proprio tra questa ricerca della verticalità del potere assoluto e l’orizzontalità piatta dello scorrere dell’organizzazione della società in tempi di comunicazione super veloce, di individualizzazione dei messaggi attraverso i social, di costruzione di riferimenti di basso profilo fondati sul pragmatismo più o meno immediato piuttosto che sui grandi principi e sulle coordinate globali.

Una orizzontalità perenne, che si perpetua nonostante le deviazioni improvvise che un itinerario di vita trova strada facendo.

Questi frangenti impongono di tornare a riflettere proprio sull’appiattirsi delle relazioni, sull’impossibilità di riconoscere un ordine e un comando che appaiono inutili nel loro vano dimostrarsi.

L’orizzontalità dell’essere reclama il collettivo, il “noi”, e respinge l’io.

Il potere non si concentra più al vertice ma si disperde nella società attraverso gli individui: è la tesi della “inflazione del potere” cui Luhmann risponde considerandola come fonte dell’ingovernabilità con la teoria della riduzione del rapporto tra politica e società, e di conseguenza con una sorta di ritorno a forme “decisionistiche” di tipo quasi assolutiste.

Una “inflazione di potere” che, scrive Nadia Urbinati, era già stato rilevata in un documento della Trilateral del 1975 (non a caso lo stesso anno in cui fu elaborato il documento di “Rinascita Nazionale” della P2): “Crisis of democracy”.

Per correggere una società civile troppo politicizzata e con una rappresentanza politica troppo direttamente protagonista nelle scelte di governo era necessario correggere il sistema di governo in senso esecutivista, liberando la società civile dai vincoli delle politiche redistributive e dello stato sociale.

L’obiettivo era di realizzare un minimalismo democratico coerente con questo progetto di depoliticizzazione.

Un fallimento annunciato, quello del minimalismo democratico, perché la depoliticizzazione ha portato alla crisi della democrazia liberale e al sorgere, quasi spontaneo, di soggetti che la mettono fortemente in discussione privilegiando il rapporto diretto con la base sociale in relazione al soddisfacimento di bisogni immediati, al più corporativi: il cosiddetto populismo nella sua versione più moderna.

Cosa ci aspetta per il futuro: una risposta in termini di nuova dittatura retta, in buona parte, sull’ottundimento del sistema mediatico chiamato semplicemente a diffondere la propaganda di regime (modello Renzi) oppure una ricerca aperta su nuove forme di governo a forma reticolare. Una “rete” da stendere tra livelli istituzionali diversi, a partire dal basso, le Circoscrizioni, i Comuni, il recupero della territorialità della rappresentanza fino alla Regioni?

Domande inquietanti alle quali per ora non compare risposta adeguata.

Intanto l’economia, intesa ormai come pura “tecnicalità” corre per conto proprio, come dimostra l’esempio spagnolo e anche quello britannico del “dopo Brexit”.

Intanto le ricette “liberalizzatrici” nell’organizzazione dell’offerta, elaborate dal governo italiano mostrano la corda della loro insufficienza strutturale.

Appaiono superate le vecchie distinzioni nelle forme di potere che, pure, in conclusione vale la pena di ricordare.

Nello sviluppo del pensiero umano il concetto di potere è sempre stato suddiviso in “comparti” (per così dire).

Aristotele distingueva nella “Politica” tre tipi di potere in base all’ambito nel quale esso era esercitato: il potere dei padri sui figli, il potere dei padroni sugli schiavi, il potere dei governanti sui governati (vale a dire il potere politico in senso stretto).

In età moderna Locke riprese la classificazione aristotelica allorquando, aprendo il secondo dei suoi “Trattati sul governo”, ribadisce la distinzione tra il potere del padre sui figli, del capitano di una galera sui galeotti e del governante sui sudditi.

Ancora Max Weber in “Economia e Società” distingue tra potere “costituito in virtù di una costellazione di interessi” (dunque il potere specificatamente economico) e il potere costituito in virtù dell’Autorità, includendo in questo il potere del padre di famiglia, dell’ufficio o del potere del principe.

Nella modernità attorno al concetto di potere abbiamo trovato espressi fattori come potenza, forza, influenza tutti utilizzati al fine di realizzare il condizionamento sociale per trovare obbedienza a un comando che contenga un determinato contenuto.

Su queste basi era maturato il concetto fondamentale di separazione dei poteri (Locke, Montesquieu, Sieyès) destinata a diventare il cardine dello Stato di diritto.

In particolare l’abate Sieyès, con la sua teorizzazione dei rapporti tra potere costituente e poteri costituiti, pone le basi per la teoria moderna della Costituzione.

Tutto questo impianto come si scriveva poc’anzi appare superato nei fatti e l’interrogativo rimane pressante: verticalità di nuove forme di dittatura oppure orizzontalità delle reti attraverso “l’inflazione di democrazia”?

Cominciamo intanto a respingere ogni tentativo di muoversi verso una nuova forma di verticalità del potere e di sottrazione di potestà alla volontà popolare, come  sta accadendo in Italia con Senato e Province eletti non più attraverso il voto del corpo elettorale (pur ormai ridotto alla metà degli aventi diritto nella crescita esponenziale della disaffezione)  ma attraverso una espressione di voto di scambio interno ad un ceto politico separato e autoriproducente se stesso.

Dire no, dunque, all’edificazione di una oligarchia sulla quale far poggiare una forma di governo di tipo assolutistico personale che controlla una pluralità di vertici (dai presidi delle scuole ai commissari al terremoto, al direttore generale della RAI, ai vertici bancari) di sua diretta emanazione.

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