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Genova 30 giugno, 57 anni dopo. Ricordo vivo e possibile punto di partenza

Sarà che sono caratterialmente un po’ menagramo, e che il bicchiere mi capita di vederlo più spesso vuoto che pieno, ma il corteo di venerdì 30 giugno a Genova mi ha entusiasmato ben oltre le attese.

Anzitutto perché è il primo cui ho partecipato con convinzione (meglio tardi che mai…), secondariamente, ma non per importanza, perché così tanta gente – si parla di circa 2.000 persone – credo se le attendessero in pochi a fronte di alcune questioni, nessuna delle quali può essere considerata trascurabile, a cominciare dal fattore generazionale.

Vivendo Genova, infatti, è impossibile non constatare il pesante invecchiamento della popolazione, che in regione e nel capoluogo tocca livelli da primato nazionale e che, va riconosciuto con grande onestà, nel corso dei decenni ha notevolmente annacquato l’anima rossa e progressista della cittadinanza, in larga parte convertita alla conservazione dell’esistente e alla protezione del proprio indotto come contrasto al dilagante disagio sociale, tanto migrante quanto autoctono.

Se questo fattore è sempre stato fondante per ampia parte della piccola borghesia commerciale cittadina di taglio democristiano, più atipico è ritrovarlo in consistenti fasce del ceto operaio che ha costruito le “fortune”, cui oggi si aggrappa, negli anni del boom economico e che proveniva quasi per intero dal medesimo disagio socio-economico che oggi osserva con malcelato ribrezzo.

Nel merito, il corteo ha provato che comunque resiste e, letteralmente, sopravvive un congruo numero di militanti e antifascisti “d’altri tempi”, che non sono cascati a piè pari nella trappola della guerra tra poveri.

Non è cosa da poco, così come non lo è stata trovare tanti giovani, soprattutto di fascia universitaria (per recuperare le fasce secondarie superiori bisogna battere altri canali, in questo senso è puntualissima la decisione del movimento Eurostop d’inserirsi nelle contraddizioni che fioccheranno dalla cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”) e tanti volti provenienti da quel che resta dell’universo operaio cittadino.

Personalmente ho riconosciuto molti ex “colleghi” delle varie esperienze ansaldine che ho vissuto nel corso della mia carriera professionale, mentre ho riscontrato completa latitanza, o quasi, di quell’universo sia intellettuale sia scientifico che si pretende “cognitario” e su cui le forze politiche istituzionali di ogni “colore” (il virgolettato è d’obbligo visto che ormai la tinta unita domina trasversalmente) vorrebbero ricostruire le fortune di Genova, a partire dal discusso IIT con il collegato “polo tecnologico di Erzelli”.

Impossibile infine non calcolare la partecipazione in riferimento a un apparato repressivo che, seppur in modo defilato, ha mostrato ampiamente i muscoli, sia per via mediatica nei giorni precedenti il corteo, sia fisicamente la sera stessa del 30 giugno, dispiegando un numero considerevole di forze, anche in borghese.

Essenziale ai fini della riuscita della manifestazione e tutela dei nostri, dunque, il richiamo fatto dagli organizzatori al rifiuto di ogni provocazione esterna e interna, e la presenza di un servizio d’ordine la cui compattezza penso abbia definitivamente mandato in soffitta l’impostazione da “mani bianche” che, proprio a Genova, 16 anni fa rese manifesta la propria inconcludenza nella gestione della piazza.

A seguire, un suggerimento, precisando di non voler insegnare nulla a nessuno e quasi certo di poter esprimere banalità per chi si confronta giornalmente con l’attivismo politico.

A mio modesto parere, se si intende ampliare il proprio seguito (e considerando che parte degli aderenti al corteo hanno sposato la causa di Eurostop, penso che l’obiettivo sia esattamente quello) diventa necessario modificare la veicolazione dei propri messaggi.

Scritto altrimenti, è necessario aprire l’immaginario – e il vocabolario – da centro sociale a modelli di comunicazione meno autoreferenziali, in caso contrario risulterà estremamente arduo fare breccia oltre gli amici dei compagni e perdurerà la disaffezione, se non la diffidenza totale, da parte di quelle fasce popolari che, per cultura distorta, sono capaci di prendere a centro dell’universo soltanto l’ombelico della rispettiva condizione materiale, senza collegarla a quella dei propri simili.

Mi rendo conto che non sia una questione semplice, ma non è più emendabile, al pari di un’azione di costante analisi e confronto con l’esistente, perché un seme di base materiale su cui agire c’è, il 30 giugno credo lo abbia dimostrato.

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