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Il capitalismo “verde” azzera la differenza tra Bio e Ogm

Nel definire cosa sia davvero sostenibile, spesso ci si dimentica di un paradigma fondamentale: uomo e natura coesistono nello stesso spazio e in uno spazio finito entrambi i soggetti lottano per la propria sopravvivenza.

Da quando si è imposto il sistema capitalistico come struttura regolatrice dei rapporti sociali, l’attacco (consapevole o meno) alle risorse naturali è stato ed è brutale nella maggior parte del mondo. Il bisogno di produrre sempre di più, e di piegare il territorio alle esigenze della circolazione delle merci, sta alla base dell’offensiva del capitale verso la natura.

Dall’altro lato, la natura non è rimasta e non è silente: l’avanzata della desertificazione, lo squilibrio del ciclo dell’acqua e dei venti che portano sempre più spesso ad alluvioni disastrose, la disgregazione del terreno sotto ai piedi che provoca frane rovinose, ecc, sono la risposta a questa offensiva.

Nel tentativo di rispondere a questo attacco, Robert Solow e Reiner Kummel teorizzano una nuova strategia di sopravvivenza del capitale, basandosi sul principio della dipendenza economico-politica dalla termodinamica e dimostrando l’importanza della gestione energetica per aumentare i margini di profitto.

La teoria vede gli albori già all’inizio del 900 ma è solo negli anni 2000 – e soprattutto dopo lo scoppio della crisi del 2008 – che l’idea di una “green economy” si struttura come nuova strategia per dare al capitalismo un volto verde; il che, nel conflitto capitale vs natura, sarebbe come dire “un colpo al cerchio e uno alla botte”, attraverso la valorizzazione del concetto di eco-sostenibilità verde all’interno delle filiere produttive.

Investimenti in “opere verdi”, ricerca di nuovi materiali e fertilizzanti eco-compatibili, energie rinnovabili, i consulenti ambientali, ecc ecc. Che questo sia, in termini scientifici, positivo dal punto di vista ambientale probabilmente è innegabile. Che questo significhi un cambiamento radicale rispetto al sistema di sviluppo, è quanto di più illusorio. Come dice G. Monbiot su The Guardian “è il sistema, più che alcuna delle sue varianti, che ci porta verso un inesorabile disastro”.

Facciamo un esempio, prendendo spunto da un articolo de La Tribune, ripreso dal Blog dei Georgofili, rinomato punto di riferimento di accademici e studiosi per quanto riguarda l’ambiente e l’agricoltura, (vedi qui). Si esprime la scienza, sempre più centrale in questa fase del capitalismo, per valorizzare le scelte politiche del capitalismo verde.

Tema del dibattito: l’agricoltura biologica, “una strategia di marketing basata sul principio del richiamo della natura”. Nella teoria esposta dall’articolo, vengono citate, senza colpo ferire, tutta una serie di motivazioni scientifiche a supporto del fatto che il sistema di produzione biologico sia inefficace, illusorio, e speculativo, arrivando infine a difendere la tesi che se gli OGM fossero socialmente accettati, il problema della sostenibilità ambientale, economica e sociale della produzione di cibo sarebbe risolta.

Una tesi che infastidisce molto, anche a sinistra, coloro che hanno sviluppato la fede acritica per il cibo biologico in quanto migliore nutrizionalmente e più sostenibile sul piano etico e ambientale. Da un punto di vista tecnico, non sta a noi smentire la tesi per cui il cibo biologico 1) non è nutrizionalmente più sano di quello prodotto in modo convenzionale, 2) non è meno impattante e tossico per l’ambiente per quanto riguarda l’uso di antiparassitari, 3) non è più etico rispetto al cibo prodotto durante secoli e secoli di selezione indotta dall’uomo.

Similmente, non sta a noi esprimere giudizi tecnici sulla sostenibilità degli OGM (già utilizzati per produrre il 90% dei cereali e della soia a livello globale, che stanno alla base della catena alimentare mondiale), per quanto riguarda il loro carattere di resistenza alla siccità, alla salinità, alla carenza di nutrienti nel suolo, ecc.

Da un punto di vista politico, però, rileviamo che il solo dato scientifico è parziale e forviante, se non si considera il contesto ambientale, sociale ed economico, in cui è inserito.

Rimane oggettivo che fino a che le sementi, i fertilizzanti, gli antiparassitari, i mezzi di produzione, i sistemi di certificazione, ecc. resteranno monopolio di poche e ormai quasi uniche multinazionali al mondo (vedi Bayer-Monsanto), non ci potrà essere sostenibilità sociale ed economica nella produzione agricola.  

Rimane oggettivo che il sistema “bio” sia una strategia di valorizzazione di una filiera produttiva per cui il consumatore è disposto a pagare di più, gonfiando le tasche dei Farinetti di turno e i bilanci delle multinazionali delle sementi e degli agrofarmaci (ancora Bayer-Monsanto), che sempre di più investono in ricerca di prodotti per l’agricoltura biologica.

Nell’Imperial Valley, in California, si produce il 90% degli ortaggi destinati al consumo interno degli USA. Negli ultimi 10 anni, oltre il 50% delle aziende si è convertita al sistema di coltivazione biologico, consentendo un risparmio idrico notevole, e la riduzione almeno in parte, dell’utilizzo delle concimazioni “fast and furious” di origine sintetica.

Un ottimo esempio di riconversione dell’agricoltura in senso più sostenibile, si potrebbe pensare.

Certo! Peccato che l’Imperial Valley si trovi a sud della faglia di S. Andrea, al confine col Messico, in un ampissimo territorio desertico, che per rinverdire in modo efficiente deve attingere enormi quantità di acqua dal fiume Colorado, che per comodità deve essere canalizzato, altrimenti disperderebbe acqua in terreni che la cui proprietà non è definita e allocata alla coltivazione. Peccato altresì che ogni giorno, centinaia di autobus facciano la spola al di là e al di qua del confine per raccogliere lavorantes messicani per la lavorazione e la raccolta degli ortaggi, manodopera a basso costo usa e getta (perché ad ogni modo il muro s’ha da fare!). Il tutto per portare in tavola delle graziose carote biologiche made in California, il cui prezzo dovrebbe essere garanzia di sostenibilità.

Non si tratta di difendere un sistema di produzione OGM, convenzionale, integrato, biologico, o addirittura biodinamico, quanto piuttosto stabilire ciò che regola tale sistema, che in questa fase storica, è l’accumulazione capitalista.

Non si deve produrre per forza un’alternativa per dire che il capitalismo è in crisi. La frase regge da sola, ma richiede uno sforzo per sviluppare un nuovo sistema”. Un nuovo sistema, che non può che essere rivoluzionario nel senso più intimo del termine e che sia regolato da una pianificazione razionale al servizio delle necessità materiali non di quelle del capitale.

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