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L’inferno dei viventi è già qui

Non è affatto un azzardo, è invece cosa sensata dire che oggi l’unico modo di onorare la Resistenza è inquadrarla in Palestina.

Non si vede forse un popolo sottoposto a un’occupazione militare? E l’esercito israeliano non è feroce, non commette crimini di guerra, non uccide per rappresaglia? E poi non vediamo le fosse comuni, i massacri di civili, la distruzione deliberata di ogni edificio o documento che conservi la memoria di un popolo?

Non si può non farlo, ecco: strappare il ricordo della Resistenza alla muffa e restituirlo alla forza sana e feconda della lotta di un popolo contro l’occupazione.

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Nella ressa degli eventi storici, l’orrore si fa spazio; e inasprisce beffardamente le sue forme, quasi godendo della sua potenza. Si vorrebbe assegnare a ogni sua manifestazione la stessa importanza, perché ogni essere umano dovrebbe essere affidato alla stessa solidarietà.

Ma ci sono eventi che non attraggono; in essi c’è qualcosa di scabroso, tale da spingere al silenzio. Oggi ci sono orrori che hanno audience, altri che sono lontanissimi, quasi inesistenti.

La storia ci restituisce la nostra ipocrisia.

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«L’inferno dei viventi» – scrisse Calvino – «è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme». È un inferno che non ha confini, anche se non tutte le zone del mondo stanno bruciando.

Oggi, nel nostro presente, la Striscia di Gaza è il luogo che meglio di tutti rappresenta l’inferno: la punizione subita dai palestinesi è assolutamente esemplare. Quante generazioni dovranno trascorrere prima di restituirli alla loro umanità?

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Dovremmo vergognarci di tollerare quell’inferno. Secondo Calvino, ci sono due modi per non soffrirne: «Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

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È già insopportabile pensare a quanto siamo incapaci di evitare che l’inferno esista, ma è assolutamente intollerabile procedere come se non esistesse. I palestinesi sono degni di solidarietà.

La loro condizione, i soprusi che subiscono, la natura “infernale” dell’attacco israeliano sono quanto di più inumano possa oggi accadere; se non li riconosciamo come parte della nostra parte, permettiamo all’inferno di diffondersi.

Quando un popolo muore, muore una parte di noi.

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Durante un suo soggiorno in Sudafrica, Edward Said rimase molto colpito da un discorso di Nelson Mandela. Due frasi, in particolare, lo colpirono.

Nella prima, Mandela disse che la campagna contro l’apartheid è stata una delle grandi battaglie morali che hanno colpito l’immaginazione del mondo. Nella seconda, invece, disse che la campagna antiapartheid non era solo un movimento per porre fine alla discriminazione razziale, ma anche un mezzo che aveva permesso di affermare la comune umanità di “bianchi” e “neri”.

Riprendendo quest’ultima frase di Mandela, Said concluse: «Per contrastare l’esclusivismo razzista dei sionisti bisognerebbe indicare una soluzione del conflitto che affermasse la nostra umanità comune in quanto ebrei e arabi».

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È forse questo il nostro compito, oggi, qui: riconoscere i palestinesi come parte della stessa umanità di cui noi stessi siamo parte. Restituire ai palestinesi la loro umanità, decisamente negata dall’ignobile comportamento di Israele.

L’atto simbolico di inquadrare la Resistenza in Palestina potrebbe servire a non perdere di vista l’insieme-mondo; tutti i popoli sono parte di un’unica specie, di un’unica universalità umana. E tutti i popoli hanno il diritto di resistere all’occupazione militare.

Anche i Palestinesi.

 

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