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Quei crimini rimasti impuniti commessi dai generali del Duce

C’ è l’armadio della vergogna, ma anche il carrello della vergogna. Nel primo furono nascosti per mezzo secolo i fascicoli degli innumerevoli crimini commessi in Italia dai nazisti con il valido aiuto degli scherani di Mussolini. Nel secondo, un enorme carrello a due piani, per ancora più tempo sono stati accantonati (sarebbe meglio dire occultati) tutti i faldoni riguardanti le non gloriose imprese commesse dalle truppe inviate dal Duce alla conquista del mondo. E, mi duole dirlo, non c’è eccessiva differenza tra le azioni delle camicie brune tedesche e quelle delle camicie nere.

Italiani brava gente? In guerra quasi non esistono differenze, come non sono esistite e non esistono nel trattamento morale e penale di nazisti e fascisti. Tranquilli i primi, nei loro Paesi, nonostante condanne all’ergastolo comminate dai nuovi Tribunali militari. Tranquillissimi i secondi, neanche sfiorati dalle inchieste.
Ora i fatti. Tra le montagne di carte di quell’enorme carrello, che per oltre due anni ho faticosamente inseguito, c’è la relazione della Commissione istituita il 6 maggio del 1946 dal ministero della Guerra per «accertare le responsabilità nelle quali potessero essere incorsi i comandanti o i gregari italiani nei territori d’oltre confine occupati dalle forze armate italiane nell’ultima guerra». Firma la relazione, datata 30 giugno 1951 e inviata a quello che ormai è divenuto il ministero della Difesa, il senatore avvocato Luigi Gasparotto: antifascista, cofondatore del Partito della democrazia del lavoro (scomparso nei primi anni del dopoguerra insieme al Partito d’azione) e unico civile tra tanti militari. Uno dei suoi figli, rinchiuso nel lager di Fossoli, fu ucciso dai nazifascisti assieme al finto generale Della Rovere e ad altri settanta internati.
Gli accusati dalle varie nazioni aggredite dal fascismo sono 326 di cui solo 34, secondo la relazione, «sarebbe opportuno sottoporre a giudizio dell’autorità competente». Ma quest’ultima, cioè la Procura militare di Roma, quando riemersero le carte, si pronunciò qualche anno fa per la «non punibilità» di tutti, a norma, artatamente, di un articolo del codice militare di guerra, il 165, previsto per ben diverse situazioni.
La relazione parte considerando le richieste della Jugoslavia, «Paese dal quale sono state mosse le più numerose e più gravi accuse alle nostre truppe di occupazione e alle autorità civili preposte all’amministrazione dei territori occupati». Dopo aver respinto l’accusa di preordinata e sistematica violenza da parte italiana, si fa riferimento alla necessità degli occupanti di emettere provvedimenti di rigore per controbattere «gli atti di ferocia commessi dai partigiani». E che i partigiani jugoslavi non fossero anime gentili, è raccontato in un altro di quei numerosissimi fascicoli: 40 bersaglieri catturati furono evirati. Ma un generale italiano commentò: «Però noi siamo gli aggressori». Vien anche scritto in questa relazione che «l’annientamento di interi villaggi, le rappresaglie più spietate, furono opera di gruppi etnici e religiosi in lotta fra loro». L’allusione riguarda, evidentemente, la guerra intestina tra titini e monarchici. «Tuttavia non può disconoscersi che gli ordini e le disposizioni dati da alcuni comandanti militari e da qualche autorità civile e i giudizi sommari di qualche tribunale straordinario apparissero improntati ad un rigore eccessivo». E così vengono denunciati, tra gli altri, alle autorità competenti «i generali Roatta e Robotti, il governatore della Dalmazia, Bastianini, i componenti del tribunale straordinario di Sebenico, generale Magaldi e colonnello Sorrentino, essendo stato l’altro componente, Pietro Caruso, fucilato in Roma, dove aveva esercitato le funzioni di questore, dietro condanna dell’Alta Corte di Giustizia». Roatta, già capo dei servizi segreti fascisti, mandante insieme a Mussolini, dell’assassinio in Francia dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, comandante supremo dell’armata che aveva invaso la Jugoslavia, diceva ai suoi: «Non dente per dente, ma testa per dente». E il suo successore, Robotti, si lamentava nelle riunioni dello stato maggiore perché «qui ne ammazziamo troppo pochi». Ma non c’è problema: loro e tutti gli altri se la cavarono a norma di quell’articolo 165 del Codice militare di guerra che prevede la parità della tutela penale, come se ci fosse parità tra eserciti e civili, come se si mettessero sullo stesso piano le vittime di S. Anna di Stazzema e chi le massacrò.
Albania. Dice la relazione: «Anche il governo albanese, sull’esempio di quello jugoslavo, ha rivolto molteplici gravi accuse di crimini di guerra ai connazionali militari e civili di cui hanno chiesto la consegna… Costoro, secondo quanto afferma detto governo, avrebbero ispirato, organizzato ed eseguito l’aggressione armata del 17 aprile 1939, favorito l’aggressione da parte della Germania del 6 luglio 1943, ordinato e commesso innumerevoli delitti contro il popolo albanese», consistenti in deportazioni, uccisioni, atti di terrore, atrocità. Ma «si tratta di accuse così vaghe e generiche» da non potersi prendere in considerazione. E le varie colpe addebitate ai singoli sono «quelle misure che potevano essere compatibili con le condizioni anormali create dallo stato di guerra». E poi, stigmatizza la commissione, «il governo albanese, anziché lanciarsi in accuse infondate, avrebbe dovuto ricordare l’azione oltremodo benefica svolta dall’Italia in quel Paese negli anni che precedettero l’occupazione». Come vi permettete? Siete privi di memoria?
Grecia. A norma dell’art. 45 del Trattato di pace il governo greco chiese la consegna di 23 persone, tra militari e civili. Tra queste l’ex luogotenente in Albania Francesco Jacomoni. Però, nell’aprile del 1948 le autorità greche «dichiaravano di rinunciare a dette consegne, lasciando alla magistratura italiana il compito del giudizio». Anche in questo caso, nota la relazione, ci si trova davanti a generiche enunciazioni (ma alcune inchieste riaperte dal nuovo procuratore Marco De Paolis dimostrano esattamente il contrario). Quindi, per la Commissione tutto a posto. Unica eccezione il generale Gherardo Magaldi, ancora lui, «il cui carattere violento avrebbe potuto giustificare l’accusa di uccisioni e atti di crudeltà da lui commessi e ordinati… Per questo è stato deciso di inviare il suo caso ai nostri organi giurisdizionali per compiere un’ampia istruttoria». Ma come vado ripetendo non se ne farà niente.
Russia. In una nota dell’ottobre del 1944 il governo russo denunciava come criminali di guerra il generale Roberto Lerici ed altri 11 ufficiali. «Tuttavia la Commissione si è dovuta convincere che le accuse erano basate su dati di fatto inesatti o insussistenti». Comunque il governo russo non rispose alle richieste di chiarimenti, «dimostrando, tra l’altro, di non insistere sulla consegna degli accusati». Alla commissione arrivarono richieste anche dalla Francia e dalla Gran Bretagna, di rilevanza minore, comunque anch’esse completamente azzerate. Manca, stranamente, in questa relazione finale della «Commissione d’inchiesta per i crimini di guerra italiani secondo alcuni Stati esteri» ogni riferimento a quel che combinarono in Africa i marescialli Badoglio e Graziani. In particolare quest’ultimo, che poi aderirà a Salò.
La conclusione, assai amara: in questo Paese è più facile, molto, molto più facile far riemergere la mastodontica Concordia, piuttosto che la storia, la memoria, la giustizia. Cioè, in una parola, la civiltà.

* Corriere della Sera del 12 Gennaio 2014

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