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Dializzati di tutto il mondo unitevi

La gente con gli ospedali ha un rapporto strano. O meglio, la gente ha un rapporto strano con tutti i luoghi in cui, generalmente, si soffre: tribunali, galere, luoghi e non luoghi di lavoro stressanti e/o alienanti. E ospedali, appunto. E ci mancherebbe altro.

Si soffre e la sofferenza fa paura, genera incertezza, l’eterno presente sospeso tra un oggi che sembra non finire mai e un domani che arriva, arriverà, forse non arriva. Una persona però non è la sua cartella clinica. Non solo almeno. Simone Pieranni tutto questo lo sa e lo ha scritto in un libro che s’intitola «Settantadue» (Edizioni Alegre), come i giorni che negli ultimi tre anni l’autore (giornalista al manifesto, già corrispondente dalla Cina, fondatore dell’agenzia China Files, tifoso del Genoa, ma non possiamo fargliene una colpa) ha passato in dialisi: quattro ore al giorno per tre volte alla settimana.

Moltiplicazione per moltiplicazione si arriva a settantadue giorni totali negli ultimi tre anni. La narrazione è un insieme di frammenti, considerazioni personali, storie vere poco verosimili e storie inventate alle quali chiunque crederebbe perché in tutto e per tutto verosimili. Fuori dalla teoria dello storytelling, il mondo è pieno di cose interessanti da raccontare. Pieranni guarda a tutto questo con due tubi nelle vene del braccio: non solo le situazioni, per così dire, normali dei dializzati – le sigarette con gli infermieri, gli altri pazienti che diventano amici, gli onnipresenti vecchi, il caffè, i pulmini, il freddo, il caldo, il tiepido, i giorni pari, i giorni dispari –, ma anche la Roma criminale che tanto va di moda ultimamente, la Cina, il casino tra Russia e Ucraina, la Genova familiare e tempestosa della giovinezza più estrema, perché ognuno di noi ha un posto da cui viene e al quale fondamentalmente torna sempre. A questo punto bisognerebbe citare le influenze: c’è tanta roba in «Settantadue».

Borges, certo ma era facile, Roberto Bolaño, il situazionismo, Chi ha incastrato Roger Rabbit, le inchieste giornalistiche. Ducentocinquanta pagine scarse, ritmo da romanzo noir. Anzi, da hard boiled vecchia maniera, perché alla fine di tutte le vicende raccolte in questo romanzo resta solo lui in piedi: un Pieranni incazzato nero, che si agita sullo sfondo mentre osserva l’umanità che passa e ritorna e non si accorgere di star facendo la storia.

Mario Di Vito

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