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Imma Villa. Il volto femminile della resistenza teatrale

A pochi giorni da un 8 Marzo che, quest’anno, è sembrato essersi riappropriato del suo valore simbolico di giornata di lotta –e non di semplice e aleatoria recriminazione di un’uguaglianza di diritti civili e dal sapore fin troppo borghese- portando, nelle piazze di tutto il mondo, milioni di donne, unite in uno sciopero globale al grido di Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo –che suona come un atto d’accusa contro il dilagante femminicidio globalizzato- noi di Contropiano abbiamo deciso di dare, per quanto possibile, un certo rilievo alle problematiche che, da sempre, indiscriminatamente, incidono sull’universo femminile, attraverso interviste con donne, rappresentanti del mondo del teatro e della cultura, che hanno fatto del loro lavoro anche uno strumento d’impegno politico e di lotta. Partiamo, allora, con Imma Villa. Attrice napoletana rigorosa, dotata di un’intelligentissima fisicità, versatile e sensibile, cofondatrice del Teatro Elicantropo -di cui è anche condirettrice artistica, insieme al compagno Carlo Cerciello– le scelte teatrali di Imma Villa –Premio della Critica 2014 per l’interpretazione de La Madre di Bertolt Brecht- si sono sempre distinte per la complessità e la profondità dei ruoli femminili affrontati, in cui la denuncia e/o la coscienza politica dell’”esser donna” è stato ed è tratto distintivo del personaggio interpretato ed elemento discriminante all’interno della drammaturgia rappresentata. Un percorso di dedizione e di studio intenso e meticoloso, mai casuale, che l’ha portata a confrontarsi con autori come Brecht, Muller, Bernhard, Seneca, Mayorga, Moscato, Ruccello…

 

Dunque Imma, com’è nata in te l’idea di fare teatro? Insomma, come hai cominciato?

Ho cominciato a dodici anni, quando mio padre mi chiese, ad una manifestazione che commemorava Edoardo Nicolardi, di recitare una poesia. Alla fine, Ottavio Nicolardi, figlio di Edoardo, mi disse che era bello guardarmi perché era come se mani, corpo e voce fossero in perfetta sintonia. Ebbi una sensazione bellissima, la sensazione di essere ascoltata, che mi lasciò, anche dopo, una piacevole emozione. Ho cominciato, poi, intorno ai vent’anni, a lavorare proprio con mio padre e Gianni Crosio –uno degli ultimi Pulcinella- facendo piccoli ruoli. Avrei voluto fare, in realtà, una scuola di teatro ma, all’epoca –siamo a metà degli anni ’70- non ce n’erano e, quelle che c’erano, non erano alla portata economica della mia famiglia. Quindi, lasciando la scuola, ho continuato a fare teatro, anche amatoriale, per fare esperienza. Al contempo, lavoravo in fabbrica, mi svegliavo alle sei del mattino e, tornando a casa in pomeriggio, cominciavo le prove degli eventuali spettacoli, cui prendevo parte. Ho continuato così fino a trent’anni. Certo, vivendo una condizione di frustrazione personale perché avrei voluto fare teatro a tempo pieno, ma questo presupponeva che avrei dovuto avere un aiuto economico da parte della mia famiglia, che, purtroppo, non poteva permetterselo. Poi, nel ’93, ho conosciuto Carlo Cerciello e con lui c’è stata la svolta radicale, sia sul piano lavorativo che di vita. Da quel momento, infatti, ho cominciato a lavorare con lui, nei suoi spettacoli, ed è nata anche la nostra storia personale. Va sottolineato, comunque, che, agli inizi degli anni ’90, era difficile trovare un posto per provare e, infatti, chiedevamo asilo ad Officina 99, dove siamo rimasti fin quando non ci siamo messi alla ricerca di un posto dove tenere le prove. L’Elicantropo, il nostro spazio, nasce così, dall’esigenza di avere una casa.

 

Cosa significa per te fare teatro?

Esprimere quella parte di me che, nella vita, non sempre riesco a tirare fuori, anche in virtù della mia enorme timidezza. Quando, poi, ho la possibilità di scegliere un testo, per me la scelta risponde all’esigenza di parlare di qualcosa in particolare o di comunicare un messaggio profondo, che mi possa restituire una crescita interiore, non solo artistica, ma esistenziale e, perché no, Politica. Insomma, quello che intendo dire è che, per me, fare teatro non si esaurisce nella mera pratica del mestiere di attore ma significa comunicare con lo spettatore, in quanto elemento sociale. Quindi, io non ambisco, quando posso, a fare un ruolo, seppur importante, solo perché mi viene proposto, ma devo, prima di tutto, coglierne l’essenza per me. L’attore, dal mio punto di vista, è essere sulla scena, non stare, a tutti i costi, in scena!

 

Cosa significa -che valore ha- oggi, fare teatro all’interno di una società e di un sistema che ha, come ideologia, il Mercato?

Mercato e Teatro, per me non vanno assolutamente d’accordo. Scegliere un testo da rappresentare non deve mai essere, in sostanza, subordinato ai vincoli di produzione. Oggi, in pratica, a causa delle esigenze di mercato, è sempre più complicato trovare un punto d’intesa tra arte e necessità produttive. In definitiva, il Teatro acquista valore proprio quando riesce a non fare spettacolo ma a mettere in gioco idee, passioni, riflessioni. Questo accade quando la produzione non pensa solo al profitto ma decide di rischiare, affidandosi all’esigenza artistica di registi, attori, autori. Fortunatamente, seppur sempre meno, ancora ci sono produzioni che affrontano tali rischi.

 

Il Teatro Elicantropo: un simbolo, un avamposto di Resistenza teatrale da vent’anni. Cosa significa? E, in senso più ampio, che valore ha per te questa parola “Resistenza”?

L’Elicantropo R-Esiste da ventun’anni, proprio per essere riuscito a crearsi un’indipendenza, non senza sacrifici, dall’imperante e stritolante logica del sistema produttivo. Ma proprio perché vogliamo essere indipendenti, dobbiamo essere molto attenti a scelte e qualità delle proposte. Ad esempio, il nostro laboratorio teatrale rappresenta una fetta importantissima della nostra indipendenza. Inoltre, ogni volta che andiamo a lavorare fuori dalle mura di casa –cinema o spettacoli teatrali che siano- tutto quello che guadagniamo lo reinvestiamo nel nostro teatro, cercando di non tradire mai le ragioni ideali che hanno portato alla nascita dell’Elicantropo. In senso più ampio, resistere significa saper dire anche dei “No sonanti”, come scrive Brecht nella lettera finale che chiude Terrore e Miseria del Terzo Reich. Questi No, però, devono essere collettivi, non individuali, come troppo spesso accade, perché da soli non sia arriva da nessuna parte.

 

Può il Teatro e, all’interno di esso, un’ attrice, contribuire –e come- alla liberazione femminile da quei “ruoli sociali” imposti da una struttura fortemente gerarchizzata, tanto in termini economici quanto, conseguentemente, in termini di differenza di genere?

Il teatro, secondo me, può rappresentare una forma di liberazione collettiva, non solo per le donne, perché ti permette di acquisire consapevolezza, ma anche perché ti consente di confrontarti, quotidianamente, con altri essere umani, in scena o durante le fasi di studio. è un continuo relazionarsi all’altro, al di là delle differenze di genere. Qualora, poi, si incontri il maschilismo sulla propria strada, dobbiamo essere noi donne a fare in modo che quest’atteggiamento non venga posto in essere, denunciandolo e fermandolo sul nascere

 

Il corpo della donna in teatro, al cinema, all’interno degli spot pubblicitari, in TV e, di riflesso, nella società, sembra essere stato liberato da tabù e ipocrisie passatiste. Non pochi, però, tra filosofi, pensatori, sociologi, intellettuali e appartenenti al Movimento di Liberazione della Donna, trovano questa liberazione fittizia, falsa; nulla di più di una mistificazione che diviene strumento –addirittura più subdolo della stessa cultura patriarcale, che imponeva alle donne una certa castità e morigeratezza di costumi- per imporre, alle donne stesse, non solo il modello maschilista, ancora imperante nella società dei consumi globali ma per subordinare, sempre più, il corpo femminile al desiderio maschile, spettacolarizzandone la pura fisicità a fini meramente economici o, appunto, sessuali. Cosa ne pensi?

Su questo tema, condivido il pensiero di Lorella Zanardo, autrice e coordinatrice di un blog che affronta queste tematiche da anni . Si tratta di un progetto itinerante di sensibilizzazione sulla condizione discriminante delle donne in Italia. Un progetto che riguarda noi donne ma anche gli uomini, in quanto compagni, padri, fratelli, amici.

 

Ci sono disparità di trattamento, sia esso economico, lavorativo, morale, tra uomini e donne, in teatro? Insomma, persiste una certa discriminazione, tu l’avverti?

A me non è mai capitato di aver avuto un trattamento diverso, né ho mai sentito storie di discriminazione, che pure ci sono, questo è ovvio. In questo momento, però, viviamo un periodo difficile e tutti quelli che lavorano nello spettacolo dal vivo soffrono la mancanza di sicurezza -questo sì- la mancanza di continuità. Ad esempio, la famosa tournée è un ricordo lontano, e tutti avremmo bisogno di qualche certezza in più. Dietro uno spettacolo, ci sono molte persone che lavorano e anche tanto: macchinisti, sarte, truccatori, attrezzisti, tecnici, figure importanti che vivono “dietro le quinte”, che sono fondamentali per la buona riuscita di un allestimento. è giusto, dunque, che ognuno abbia un riconoscimento adeguato; ma questo vale in ogni luogo di lavoro e purtroppo sappiamo che non sempre è così. Personalmente, comunque, come dicevo, non ho mai vissuto situazioni di discriminazione. Ho avuto la fortuna di lavorare con produzioni il cui obiettivo comune è sempre stato la buona riuscita del progetto. Il teatro, secondo me, è il luogo della democrazia per eccellenza, dove tutti hanno la medesima importanza e nessuno è inferiore ad un altro. Tutti lavorano per il “bene comune”, un bene superiore: lo spettacolo.

 

Si sente spesso ripetere, da parte di giovani donne -e dei ragazzi più in generale- che vorrebbero fare cinema o televisione. Teatro poco, probabilmente perché concede poca visibilità e notorietà; ma anche perché, forse, richiede molto più impegno, studio e passione. Cosa ne pensi, anche alla luce del fatto che l’Elicantropo ha una scuola di formazione teatrale? In tale contesto, senti sminuita l’importanza di un lavoro come il tuo?

Chi non vorrebbe saltare tutte le tappe? Un ragazzo o una ragazza ha dentro la voglia irrefrenabile di “fare” di “realizzare subito” i suoi sogni. Chi non ha mai avuto questo forte impulso? Non riesco a puntare il dito, fa parte proprio della gioventù quella voglia di “partire in quarta”, di non “fermarsi mai”; poi, quando passa qualche anno, cominci a capire che devi fermarti e devi riprendere a studiare, devi cercare di trovare dentro te stesso il “motivo vero” che ti porta a scegliere il cinema, la televisione o il teatro. Io non sono un’insegnante del Laboratorio Teatrale Permanente dell’Elicantropo, quindi, nello specifico, non posso darti una risposta precisa, la domanda andrebbe fatta a Carlo Cerciello. Quello che posso dire è che i ragazzi che arrivano a iscriversi hanno nei loro occhi la voglia di “conoscere” e, quando, alla fine dell’anno, arrivano al Saggio -che conclude il primo anno di lavoro- dentro di loro quella fiammella iniziale diventa un fuoco immenso, perché in quell’anno hanno fatto gruppo, sono cresciuti insieme, hanno dato vita ad un sogno. Non importa se un giorno saranno attori o solo spettatori, hanno dentro di loro l’amore per il teatro ed è questa l’unica cosa importante!

 

Ultimamente, in Animali Notturni, di Juan Mayorga, recitavi il ruolo di una donna succube del marito, che trova rifugio in illusori programmi televisivi, per poi, infine, liberarsi di questa sudditanza psicologica. In passato, però, hai anche interpretato, ne La Scandalosa, Martia Basilia –donna condannata al rogo dall’Inquisizione; La Madre –personaggio fortemente politico- di Bertolt Brecht; Quartett, in cui rappresentavi più ruoli femminili; il dolente travestito di Scannasurice. Cosa ti dicono, come parlano di te, come donna, questi ruoli? Cosa ci dicono?

Quando comincia una nuova avventura teatrale, la prima cosa che cerco di fare è capire il progetto del regista, la sua idea. è bello farsi guidare da chi resta all’esterno dell’operazione: per esterno intendo che non è attore dello spettacolo. Cerco sempre di entrare in una storia in punta di piedi, di mettere da parte la mia identità di attrice e di lasciarmi affascinare dal personaggio.

 

In questi giorni, sei in scena, all’Elicantropo, con Scannasurice di Enzo Moscato. Quest’anno, inoltre, avete portato, al Bellini, Bordello di Mare con Città, sempre dello stesso autore. Cosa ha significato, per te, l’incontro con la poesia drammaturgica di Moscato?

Un incontro magico. I suoi testi hanno la capacità di farmi dimenticare tutto quello è intorno a me e quando ho letto Scannasurice è successo proprio questo. Mi sono chiesta: possibile che nessuno -oltre lui- abbia mai pensato di rimettere in scena questo testo? Scannasurice è Napoli, Scannasurice siamo tutti noi, che viviamo questa città in un’ eterna “sospensione” tra vita e morte. Mettere in scena Scannasurice, insomma, è un sogno realizzato, cosa non facile di questi tempi. L’abbiamo messo su con grande sacrificio e la fatica è stata premiata. Oggi, infatti, lo spettacolo continua a girare grazie alla preziosa collaborazione che è nata con la Elledieffe. Ed è con loro, d’altronde, che abbiamo anche realizzato Bordello di Mare con città, scritto da Enzo Moscato dopo la morte di Annibale Ruccello. Tutti i testi di Enzo Moscato portano dentro di sé il dolore e l’amore per questa città così martoriata e sofferente. Un autore che affonda con durezza e consapevolezza amara nelle crepe della nostra Napoli.

 

Veniamo ad un argomento spinoso: il Teatro Stabile-Nazionale Mercadante. Il nuovo presidente del Cda è Filippo Patroni-Griffi, uomo vicino a Gianni Letta. Il Direttore Artistico, Luca De Fusco, è legato a doppio filo all’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta, ed è da lui sponsorizzatissimo. Cosa pensi, quindi, di questa nomina? Potrebbe cambiare qualcosa nella gestione del Teatro Stabile?

Mi piacerebbe che il potere politico finisse di interferire con l’arte e la cultura. Tutto qui.

 

Lo Stabile, Teatro Nazionale, rappresenta, secondo te, le tante anime teatrali presenti sul territorio della nostra regione?

No

 

La nuova normativa dello spettacolo dal vivo, espressa dal cosiddetto decreto Franceschini/Nastasi, attribuisce, ai teatri, finanziamenti pubblici –quelli, per intenderci, del FUS- sulla base di un algoritmo, a dire di molti astruso. Come giudichi tale regolamentazione?

Noi, come Elicantropo, l’abbiamo vissuto sulla nostra pelle. L’indipendenza, come ti dicevo prima, si paga. L’importante, però, è continuare con coerenza il proprio lavoro. Esistere e Resistere, nonostante tutto e tutti. Sono ormai 21 anni che ci siamo e, chi viene in teatro da noi -parlo degli spettatori ma anche di compagnie- sceglie di esserci, sceglie il piccolo Elicantropo con i suoi 37 posti a sedere. Lo scelgono, ed bellissimo, no?

 

La cultura è, in genere, considerata uno strumento di crescita individuale, collettiva, di massa. Strumento di Potere e Contropotere. Come la intendi tu?

Più si cresce “individualmente” e più si può essere utili alla collettività. Più si studia e più si diventa liberi di scegliere, questo l’ho capito quando ho scelto di fare questo mestiere. Mi piacerebbe concludere i miei anni di studi, recuperare gli ultimi due anni di magistrale che ho lasciato. Io sono una di quelle che voleva “realizzare subito”, ma oggi, se dovessi dare un consiglio a chi sta cominciando, gli direi continua a studiare, perché è attraverso lo studio che trovi le risposte e la forza di scegliere. Insomma, bisogna avere pazienza e non si devono “bruciare le tappe”.

 

Per l’8 Marzo, alcuni movimenti di matrice femminista hanno proposto una forma di sciopero generale delle donne, per protestare contro le violenze sulle donne stesse e contro i soprusi di genere. Condividi questa scelta? Ha ancora senso celebrare questa simbolica ricorrenza?

Non si può distruggere la vita di una persona per i propri egoismi. Quanta ignoranza, quanta indifferenza! Donne, e non solo donne, che cercano aiuto e che non trovano nessuno ad aiutarle. Questa è la cosa che più mi fa rabbia; storie che potrebbero avere altri finali, vittime “sole” che hanno paura di denunciare, perché sanno che nessuno le potrà aiutare e, quando torneranno a casa, lì non ci sarà nessuno a proteggerle. Esseri umani che riversano contro altri esseri umani le loro frustrazioni, che abbrutimento. Siamo tutti responsabili!

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