La Turchia di Recep Tayyip Erdogan, quella caricatura giudiziaria che detiene il triste primato globale di giornalisti in carcere, non è un Paese per scrittori. Anzi, non c’è proprio spazio per liberi pensieri. Eppure, questa nuova società del malessere che rassomiglia giorno dopo giorno ad un’incommensurabile gattabuia istituzionalizzata, è ancora incredibilmente capace di resistere e generare scritti e volumi che sono odi allo stato di diritto e alla libertà.
Tra le fila di questa accademia di prigionieri di coscienza, vittime di una pornografia giudiziaria che ha come unico scopo quello di silenziare ogni pensiero critico, spicca Ahmet Altan, uno dei principali autori turchi contemporanei, giornalista, intellettuale, da sempre in prima linea contro i mali cronici del paese fondato da Mustafa Kemal nel 1923: nazionalismo, xenofobia, tutela militare. Mali comuni ereditati e tramandati dalle storiche e contrapposte élite politico-economiche e personalizzati dalla classe dirigente attuale, saldamente al potere da quasi due decenni.
Ahmet Altan, classe 1950, insieme a suo fratello Mehmet, economista e docente universitario, sono stati condannati all’ergastolo con l’accusa di essere coinvolti nel fallito golpe dell’estate 2016, quella benedizione divina – secondo le dichiarazioni dello stesso Erdogan – che ha rimpiazzato lo stato di diritto con un permanente stato d’emergenza liberticida.
Dallo scorso aprile, anche qui in Italia, un volume raccoglie le tre memorie difensive dell’intellettuale turco (Tre Manifesti per la libertà, Edizioni e/o, pp. 190, euro 5), un piccolo capolavoro argomentativo che mette a nudo tutte le incongruenze di un processo farsa. Un impianto accusatorio le cui prove sono grottesche interpretazioni che vedono l’imputato incriminato per presunti “messaggi subliminali” alla vigilia del fallito golpe. Peccato che sia gli scritti che la stessa attività giornalistica di Ahmet Altan si concludano nel 2013, quando l’autore turco lascia la direzione di Taraf, il quotidiano liberale impegnato per anni contro i tanti tabù della società turca – dalla questione curda alla Stato profondo – e poi chiuso dalle autorità nella “lunga estate” di Ankara.
Le tre memorie sono una coraggiosa denuncia di un sistema oppressivo alimentato da arrivisti, calcolatori e uomini di stato deviati. Un sistema giudiziario che sostituisce le prove con soggettive ed originali impressioni. Un ergastolo, quello inflitto all’intellettuale turco, basato su fragili testimonianze che lo stesso scrittore ripercorre, decostruisce e ridicolizza, offrendo al lettore, come agli uomini di legge, un insegnamento di diritto penale. Una sequela di argomentazioni giuridiche accompagnate da uno stile fine e rispettoso che non manca di sottile ironia. Le pagine sono un inno alla legge, alla giustizia, ad un popolo, quello della repubblica di Turchia, vittima, per troppi anni, di dispotismo e oppressione. Secondo Ahmet Altan, criminalizzare chiunque abbia avuto rapporti con un imputato – nuova prassi giudiziaria turca – non si basa su nessuna disposizione legale ma su un atto di “scomunica”, un’azione più simile alla prassi ecclesiastica che non a quella di uno stato moderno. Bigottismo contro verità.
Il j’accuse di Altan è rivolto anche ai colleghi della stampa e dei media, a quei giornalisti senza coraggio che “hanno voltato le spalle alle sofferenze della sinistra, dei curdi, degli intellettuali, degli scrittori e delle persone sinceramente religiose”. Non è semplice avere spazio in una Turchia dove la stragrande maggioranza di canali televisivi, giornali e riviste sono in mano ad una piccola cerchia di imprenditori vicini o legati all’establishment. Al contrario, oggi nel Paese, non è difficile finire in galera se si è nel giusto, perché – come sottolinea Altan – “il colpevole ha la possibilità di travestirsi da pubblico ministero”.
La difesa dell’autore turco è anche l’occasione per analizzare le radici storiche del malessere contemporaneo. Come la controrivoluzione fallita del 1909 aprì la strada al regime dittatoriale dei Giovani Turchi, infrangendo irrimediabilmente ogni speranza di un Impero Ottomano democratico e pluralista, così il tentato golpe del 2016, trascina giorno dopo giorno la Turchia verso un’autocrazia. Come salvarsi da questo naufragio? Ahmet Altan intravede una luce in quello che apostrofa come l’ultimo atto di un pessimo dramma. Infatti, quando si distrugge lo stato di diritto, anche l’economia collassa, e soffocare il silenzio di una società infelice, diventa poi impossibile. Un giorno la legge si risveglierà.
Il libro, il cui ricavato delle vendite andrà a coprire le spese legali dell’autore, si chiude con un grande atto di coraggio e di sfida dello scrittore che, da condannato all’ergastolo, si dichiara pronto a morire in prigione, perché “la natura delle punizioni che i despoti hanno inflitto agli altri è stata segnata come porto d’approdo sulla mappa del loro destino”.
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