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E ora? Il vuoto dietro la “vittoria”

Ma su quello istituzionale, della costruzione “politica” di un “nuovo mondo arabo”? Quale credibilità può avere un Occidente che si preoccupa solo di mettere dei “quisling” là dove i propri interessi sono stra-evidenti (Tripoli e Baghdad, in modo esplicito; Kabul, di sponda)? Che differenza reale c’è tra chi comanda oggi in Iraq (chi di voi ne sa più qualcosa?) e domattina sulla Libia rispetto ai Saddam e ai Gheddafi (peraltro un bel po’ diversi, l’uno dall’altro, anche se entrambi laici – come anche il siriano Assad – in un ambiente dominato dai satrapi integralisti)?

Ecco dunque che solo ora si può far strada il dubbio anche negli editorialisti di punta della stampa padronale. Soprattutto italiana, questa volta, perché è chiarissimo che a rimetterci saranno soprattutto le “nostre” imprese, a cominciare dall’Eni.

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Strana guerra senza vincitori

Se la guerra di Libia come sembra è terminata, sappiamo chi l’ha perduta: il Colonnello, il suo clan familiare, i profittatori del regime, le tribù alleate, gli amici internazionali che hanno scommesso sulla sua vittoria. Non sappiamo invece chi l’ha vinta. I ribelli hanno combattuto coraggiosamente, ma sono una forza raffazzonata composta all’inizio da qualche nucleo islamista, senussiti della Cirenaica, nostalgici del regno di Idris, una pattuglia democratica. Le loro file si sono ingrossate quando l’intervento della Nato è sembrato garantire una vittoria sicura. Ma il fatto che molti notabili siano stati alla finestra per parecchi mesi e abbiano cambiato campo soltanto nelle ultime settimane dimostra che il risultato della partita era incerto e che nella migliore delle ipotesi il Paese sarà governato da una coalizione di opportunisti post-gheddafiani, lungamente complici di colui che ha dominato la Libia per 42 anni.

Hanno vinto gli uomini di Stato occidentali che hanno voluto l’intervento militare? Il presidente francese aveva due obiettivi. Sperava, in primo luogo, di oscurare con un rapido successo politico-militare l’imbarazzante ricordo delle sue amicizie egiziane e tunisine. E contava di diventare il partner privilegiato della maggiore potenza petrolifera dell’Africa settentrionale. Dopo una guerra molto più lunga del previsto, Nicolas Sarkozy constaterà probabilmente che un Paese distrutto e ingovernabile è il peggiore dei partner possibili. Il primo ministro britannico ha obbedito a una sorta di tic imperiale e ha oggi altre gatte da pelare. Barack Obama non crede che la vicenda libica possa giovare alla sua rielezione e ha fatto un passo indietro non appena l’operazione è diventata troppo lunga e complicata.

Ha vinto la Nato? I suoi portavoce sosterranno che il suo ruolo è stato decisivo. Ma ha vinto, tecnicamente, soltanto per evitare che la sua uscita di campo, dopo il fallimento dell’operazione umanitaria e lo stravolgimento degli scopi iniziali dell’intervento, divenisse agli occhi del mondo la prova della sua impotenza. Qualcuno prima o dopo si chiederà se la maggiore alleanza militare del mondo abbia interesse a spendere tempo e denaro per installare al potere un partito di cui ignora la composizione e i programmi.

L’incertezza del risultato raggiunto in Libia avrà l’effetto di rendere ancora meno efficace la politica dell’Europa e degli Stati Uniti in Africa del Nord e nel Levante.

Di fronte a una transizione che si sta rivelando ovunque incerta e laboriosa, l’Occidente ha bruciato ormai la carta estrema dell’intervento militare. La Fratellanza musulmana in Egitto, Bashar Al Assad in Siria, gli Hezbollah in Libano, Ali Abdullah Saleh nello Yemen, Omar Al Bashir in Sudan e naturalmente Mahmud Ahmadinejad in Iran sanno che l’Occidente, assorbito dalle sue crisi economiche e finanziarie, potrà soltanto predicare democrazia e minacciare sanzioni: due armi che si sono dimostrate quasi sempre spuntate.

Sergio Romano

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da Il Sole 24 Ore

Il tiranno è caduto ma le faide mettono a rischio la primavera dei giovani

da Tripoli, Alberto Negri

 

Questo, si è scritto più volte, è l’89 del mondo arabo: non è una frase a effetto, in pochi mesi la carta geopolitica è cambiata sulla sponda Sud del Mediterraneo e sta mutando anche i rapporti internazionali in Medio Oriente. È una vasta area strategica con centinaia di milioni di abitanti, gas e petrolio, che si trasformando con un rivolgimento paragonabile alla decolonizzazione, quando francesi e britannici dovettero rinunciare ai loro imperi. Certo tutto sta avvenendo in maniera assai diversa e con una rapidità sconvolgente. È il momento degli interrogativi, dell’instabilità, del futuro incerto, ma anche della grandi opportunità che non si devono perdere nel ripiegamento dei governi europei sui gravi problemi generati dall’attuale crisi economica e finanziaria. L’Occidente era stato ai margini in Tunisia ed Egitto, con la Nato in Libia si è rivelato invece decisivo: il dopo Gheddafi è quindi fondamentale, lo dimostra oggi anche la reazione di mercati azionari che pure rimangono sempre oscillanti e volatili.

Nessuno, un anno fa, quando sfilava nell’afa romana con una divisa grondante di medaglie, avrebbe mai potuto immaginare un crollo così repentino e violento del Colonnello, preceduto da quello di Ben Ali e Mubarak. E anche all’inizio della rivolta di Bengasi il nostro governo riteneva che avrebbe facilmente represso le dimostrazioni di piazza. Insieme a Putin, Gheddafi era l’autocrate con cui intrattenevamo i migliori rapporti d’affari sanciti da un trattato di amicizia del 2008 approvato, con poche eccezioni, da tutte le forze parlamentari. Sulla sponda Sud del Mediterraneo, sei mesi dopo, il mondo è cambiato: via Ben Ali e Mubarak, ora anche Gheddafi è finito, sgretolato dai bombardamenti della Nato e da un’avanzata degli insorti che senza i raid aerei e i consiglieri militari sul campo sarebbero quasi sicuramente usciti sconfitti. E’ stata la vittoria delle armi sulle armi, a differenza di quanto avvenuto in Tunisia e in Egitto dove una rivolta popolare disarmata ma con un’inarrestabile spinta ideale ha costretto i dittatori alla resa, con uno spargimento di sangue limitato ed evitando paurose voragini di anarchia.

Ma anche in Libia, come negli altri Paesi del Nordafrica e in Siria il motore dell’insurrezione sono stati i giovani. Forse sarebbero travolti se la Francia di Sarkozy non avesse trascinato gli altri Paesi della Nato all’intervento ma Parigi, scottata dalla Tunisia che era costata le dimissioni del ministro degli Esteri per i suoi rapporti con Ben Ali, ha colto con prontezza l’opportunità di una rivincita per sfruttare le forze che stavano scuotendo la società libica, apparentemente immobile dopo 41 anni di regime incontrastato.

Dobbiamo riconoscere che della Libia sapevamo ben poco. I libici con cui avevamo rapporti non ci hanno poi aiutato molto a capire. E non ci convince la versione dell’ambasciatore in Italia Gaddur, passato dalla parte dei ribelli, che gran parte di loro era contro il regime: lui stesso ne è stato complice e pilastro per decenni. Per questo fare previsioni non è così semplice.

Certo si deve fare attenzione che la caduta non si risolva in una spirale di vendette che potrebbero lasciare tracce. Si devono evitare gli errori commessi dopo l’occupazione americana di Baghdad ma anche i paralleli, in questo caso, possono essere fuorvianti: lo scenario iracheno somiglia di più alla Siria attuale di Assad che a quello libico. In Libia le divisioni non sono settarie, religiose o etniche (salvo per la componente berbera) ma regionali, tra Tripolitania e Cirenaica, e tribali. C’è un senso di sollievo ma anche di vuoto nel crollo di un regime durato quasi 42 anni. Eravamo abituati a capi carismatici che da decenni, pur senescenti, apparivano senza un filo bianco tra i capelli, immutabili, come sembravano anche i loro Paesi. Oggi di capi, di leader forti, non se ne vedono all’orizzonte e il quadro politico tra Tripoli e Bengasi appare assai confuso: ex del vecchio regime, generali, attivisti, islamici, un fronte mosso e scontornato che riunisce di tutto. L’era dei raìs ha ceduto, per ora, alle nuove generazioni.

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da La Stampa

 

L’incubo del dopo-regime. Usa e Europa si sfilano
“Da noi nessun soldato”

Dubbi sulla transizione: sarà nelle mani dei libici

MAURIZIO MOLINARI

Nessun invio di truppe di pace internazionali, mantenimento della sicurezza affidato alle forze ribelli e risoluzione dell’Onu sulla ricostruzione civile, che vedrà gli europei assumersi le maggiori responsabilità: è questa la «road map» per il dopo-Gheddafi in Libia come si delinea dai contatti in corso fra le capitali della Nato e nei briefing del presidente americano Barack Obama in vacanza a Martha’s Vineyard.

L’accelerazione dell’offensiva dei ribelli contro Tripoli ha stravolto le brevi vacanze di Obama nell’enclave dei vip, obbligandolo a separarsi a più riprese da moglie e figlie per esaminare, con il consigliere sui temi della sicurezza John Brennan, lo scenario che sta maturando.

Se le preoccupazioni immediate riguardano il rischio di una carneficina a Tripoli, con i persistenti tentativi americani di indurre Gheddafi a lasciare volontariamente il potere, nei contatti con gli alleati la Casa Bianca è impegnata a concordare lo scenario del «dopo».

La convergenza che trapela, da fonti americane ed europee, è sulla scelta di non inviare una missione di peacekeeping internazionale, affidando al Consiglio di transizione nazionale libico (Cnt) il mantenimento della sicurezza. «Obama resta fedele alla scelta di non mandare soldati in Libia e gli europei non hanno voglia di farlo per evitarne i costi economici» spiega Daniel Serwer, ex diplomatico americano a Roma nonché autore del recente studio «L’instabilità nella Libia del dopo-Gheddafi» del «Council on Foreign Relations».

D’altra parte il leader della coalizione dei ribelli, Mahmoud Jibril, negli incontri avuti in più capitali Nato si è vantato di «guidare una rivoluzione» che «sarà in grado di assumere la guida del Paese», portando come prova la «stabilità delle aree finora liberate». Il primo ministro ad interim, Mahmud El-Warfally, durante una tappa a Washington ha illustrato un «piano di transizione» che prevede la formazione di un governo transitorio «con la presenza di tutte le componenti dell’opposizione» per preparare le elezioni al Parlamento, affiancato da «tre commissioni su ricostruzione, riconciliazione e istituzioni».

Quella sulla «riconciliazione» si ispira al precedente sudafricano nel dopo-apartheid per «evitare vendette», ma nella Nato serpeggiano timori in proposito, come osserva il ministro degli Esteri canadese John Baird, mettendo le mani avanti: «La transizione non sarà perfetta». Al fine di aiutare i ribelli, la «road map» prevede l’invio a Tripoli subito dopo la caduta di Gheddafi di una «missione di monitoraggio» composta da Paesi arabi – e forse guidata dagli Emirati – destinata a testimoniare il sostegno della comunità internazionale al governo ad interim. Questo dovrebbe poi essere sancito da una risoluzione Onu sulla ricostruzione, che aprirà la strada ai contributi dei singoli Paesi.

A conferma di quanto tale scenario sia avanzato c’è il fatto che l’Italia ha già iniziato a operare per riattivare i settori destinati a essere di sua competenza: sicurezza dei porti, dogane, sanità e indipendenza dei media. La principale preoccupazioneresta tuttavia la sicurezza. Il generale canadese Vance ammonisce a «non accelerare il ritiro della Nato in assenza di una chiara composizione politica», mentre fonti militari britanniche temono di «andare incontro a una disastrosa vittoria», se la caduta di Gheddafi finirà per innescare una «resa dei conti tra le fazioni dei ribelli, a cominciare da berberi e cirenaici».

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E se Tripoli finisse come Baghdad? Tutte le incognite del dopo-Gheddafi

di Roberto Bongiorni

E se Tripoli cadesse nei prossimi i giorni – ipotesi peraltro non scontata – cosa accadrà all’ex regno del colonnello Muammar Gheddafi? Una volta venuto meno il collante che teneva unita l’anarchica armata degli insorti – ovvero la guerra contro il dittatore – i ribelli saranno davvero in grado di restare uniti, mantenere la sicurezza, proteggere le infrastrutture e ricostruire la nuova Libia?

Davanti all’inaspettata avanzata degli insorti, ormai alle porte della capitale Tripoli, le cancellerie dei paesi occidentali e i vertici della Nato sono assillati da queste domande. Ciò che tutti vogliono evitare è che Tripoli si trasformi in un’altra Baghdad. Sono ancora freschi i ricordi di cosa accadde poco dopo l’aprile del 2003, quando i marines abbatterono la statua di Saddam Hussein. Complice l’inopportuna decisione di sciogliere l’esercito iracheno (500mila unità di cui molti quadri sunniti) scoppiò il caos; anni di guerra civile, un’insurrezione armata alleata con i miliziani di al-Qaeda, atroci violenze interconfessionali tra sciiti e sunniti. Centinaia di migliaia di vittime. La produzione petrolifera che ha arrancato per quasi 10 anni.

La Libia non è l’Iraq. Anche perché questa volta saranno dei libici – se ci riusciranno – a conquistare la capitale e scalzare l’uomo che è restato al potere con il pugno di ferro per oltre 40 anni. Eppure il dopo Gheddafi resta un’incognita piena di insidie.

Il timore di rappresaglie contro chi è rimasto fedele al Rais, le rese dei conti tra clan rivali, una situazione di anarchia in cui si fa strada il crimine organizzato, sono dei rischi reali. Come lo è un pericoloso vuoto di potere.

La Libia è un paese dove il clan o la tribù di appartenenza conta, e molto. Le tribù sono in pratica la sola istituzione sopravvissuta durante i 40 anni di regime. Gheddafi era stato particolarmente abile nell’applicare la strategia del divide et impera con i clan rivali.

Al di là di vecchi rancori mai sopiti, la ripartizione dell’enorme ricchezza energetica – la Libia vanta le prime riserve petrolifere dell’Africa – potrebbe innescare lotte intestine. Gli 1,6 milioni di barili al giorno di greggio estratti prima della rivolta, fruttavano al regime. circa 35-40 miliardi di dollari l’anno.

Occorrerà mettere d’accordo la tribù Warfalla, la più grande – un sesto della popolazione – suddivisa in sei grandi clan e invisa a Gheddafi per il tentato colpo di stato del 1993, con la seconda tribù, i Magariha, alleata del regime in alcune delle più sanguinose repressioni. Sarà opportuno trovare un’equa ripartizione dei poteri, arginare le ambizioni degli Zuwaya la più importante tribù della Cirenaica. E accontentare anche le tribù minori.

Un compito molto difficile, che spesso nei paesi arabi un carismatico “uomo forte”, un simbolo, in parte è stato capace di realizzare. All’ultimo gli insorti potrebbero aver trovato il loro leader in Abdessalam Jalloud, amico d’infanzia e per anni stretto collaboratore di Muammar Gheddafi. Lui , premier per due volte ed ex ministro del petrolio, di fatto agli arresti domiciliari dal 1993, è fuggito da Tripoli ed è passato dalla parte dei rivoltosi.

Una candidatura tutt’altro che scontata. Gli insorti non sono così uniti come vogliono far apparire all’esterno. Anche sul loro versante, la macchina della propaganda ha cercato di enfatizzare i successi, nascondendo le divisioni. Come le faide interne al Consiglio nazionale di Transizione (Cnt), l’organo rappresentativo basato a Bengasi, capitale della Cirenaica. L’annuncio del suo scioglimento, alcune settimane fa, seguito da un supposto rimpasto – Mahmoud Jibril resterebbe “primo ministro”, con l’incarico di formare un nuovo esecutivo di 14 ministri, è finora rimasta una manovra confusa di cui si sa ancora poco.

Disorientato dal precipitare degli eventi, il Cnt ha messo a punto nei giorni scorsi una nuova road map per il periodo di transizione successivo alla caduta del regime. Si tratta di una «dichiarazione costituzionale» che prevede di rimettere il potere a un’Assemblea nazionale entro otto mesi e di adottare una nuova costituzione. Ma occorrerà disciplina. Certo non il punto forte dell’eterogenea compagine dei ribelli.

Ecco perché il dopo Gheddafi fa paura. Perché una caduta imminente del regime rischia di trasformarsi – come ha sottolineato un diplomatico occidentale da Bengasi – in un “catastrofico successo”. Gli Stati Uniti sono convinti che Gheddafi non fuggirà. Se sceglierà davvero di combattere fino alla fine, la conquista di Tripoli potrebbe rivelarsi molto sanguinosa. Eppure potrebbe offrire tempo prezioso per trovare un accordo tra fazioni rivali ed alleati del regime. Ed evitare uno scenario ancora più sanguinoso: un Iraq africano.

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da Repubblica, la valutazione di un generale italiano (in audio)

http://tv.repubblica.it/dossier/libia-rivolta-gheddafi/il-generale-italiano-ma-il-dopo-gheddafi-e-un-rebus/74550?video=&ref=HREA-1

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Salda opportunamente problema politico e crisi economica Marta Dassù, su La Stampa

 

Euro e Libia, le due guerre d’Europa

MARTA DASSU’

Non è chiaro quali saranno i costi, in vite umane, dell’ultimo atto: la presa di Tripoli. La battaglia finale nella notte, aperta dai ribelli venuti da Ovest, è comunque una battaglia cruenta, se Gheddafi sceglierà di combatterla fino in fondo, nonostante abbandoni e defezioni dei suoi. Ma è infine giunto il momento della verità, per il dittatore di Libia e per il suo regime. Dopo mesi di una guerra dimenticata nel cortile di casa dell’Europa, la sconfitta di Gheddafi salverà la faccia alla Nato. In teoria. Nei fatti, non sarà semplice da gestire. Se la Libia verrà lasciata a se stessa, da un’Europa alle prese con la propria crisi finanziaria, vittoria e fallimento potrebbero saldarsi. In un «successo catastrofico», secondo l’espressione pessimistica e cinica che sta circolando a Bruxelles.

I precedenti – dai Balcani all’Afghanistan – indicano costi e rischi dei dopo-guerra. Nel caso della Libia, il primo rischio è che la caduta di Gheddafi prepari un nuovo ciclo di violenze, lasciando esposti i civili e risucchiando il vasto fronte dei «vincitori» in un pesante regolamento di conti (passati e presenti). Come verrà garantita la sicurezza? È già chiaro che l’America intende sfilarsi dal gioco, dopo avere partecipato controvoglia alle operazioni militari. Obama non intende fornire né uomini (né aiuti economici rilevanti, probabilmente) alla gestione di un problema che considera parte delle responsabilità europee. L’Europa, che con Parigi e Londra ha trainato l’intervento militare – ma esponendo così tutti i limiti delle proprie capacità – passerà a sua volta la mano. L’intenzione è di avallare le ipotesi, in discussione all’Onu, di una missione di monitoraggio iniziale affidata a contingenti arabi ed africani. Risultato: nel dopo-Gheddafi, il ruolo di Paesi come la Turchia e le monarchie del Golfo aumenterà. Sul piano formale, le responsabilità di sicurezza saranno dei libici stessi. Con esiti incerti, naturalmente. Anche per gli interessi europei.

Sul piano politico, il rischio è ancora più evidente. Italia, Europa e Stati Uniti hanno scommesso su una ipotesi precisa: che il Consiglio di Transizione Nazionale creato a Bengasi riesca a garantire un processo di riconciliazione, tenendo sotto controllo le rivalità tribali e avviando la costruzione di istituzioni nazionali in un Paese che ne è privo da sempre. Questa scommessa, già difficile, è complicata dal ruolo decisivo assunto dai ribelli occidentali, dai berberi di Nafusa, nella offensiva militare su Tripoli. Quanta della Libia anti-Gheddafi sarà disposta a riconoscere la leadership di Bengasi? Gli europei non avranno più la stessa influenza una volta che i ribelli saranno al potere. Il momento di trattare le condizioni per il dopo-Gheddafi è oggi (era ieri), prima del «catastrofico successo» di cui si dice a Bruxelles.

Gli accordi economici possono servire da leva. È scontato e legittimo che i Paesi europei, Italia inclusa, puntino a garantire i propri interessi energetici. D’altra parte, sarebbe assurdo che l’Europa, dopo essersi divisa sulla guerra a Tripoli, si dividesse anche sulla gestione del dopo-guerra: lo scongelamento degli assets libici in Europa deve essere utilizzato per ottenere garanzie sul futuro della Libia.

Negli ultimi mesi, l’Europa ha combattuto due guerre. Una guerra interna con altri mezzi sul destino dell’euro; una guerra esterna tradizionale, sui destini di un Paese chiave del fronte Mediterraneo. Le tensioni interne sulla gestione dell’economia non hanno certo favorito le performance europee in politica estera. La posizione del paese centrale, la Germania, è quanto mai indicativa: economicista, si potrebbe in fondo dire così, sia in casa che nel vicino estero, come ha indicato la posizione distaccata di Berlino sulla guerra in Libia. La realtà, tuttavia, è che l’Europa vincerà o perderà queste due guerre insieme. Se l’Euro-zona si spaccasse su una linea Nord-Sud, la frattura economica e monetaria dell’Ue diventerebbe parte dell’instabilità geopolitica del Mediterraneo. Uno scenario catastrofico per un paese come l’Italia ma che non si fermerebbe certo ai confini dell’Europa renana. Per chiunque ragioni sugli interessi a lungo termine del Vecchio Continente, fermare il crollo della Borsa e gestire il crollo del regime di Gheddafi sono solo apparentemente compiti contrastanti e lontani. La sicurezza degli europei dipende da entrambi. E dipende da noi: con la fine della guerra di Libia, l’era della tutela americana è giunta al suo termine.

 

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Alcuni lanci d’agenzia chiariscono bene “l’obiettuvo” vero della guerra.

‘Light sweet’, ovvero dolce e leggero. Non è la definizione di un ottimo vino, nè di uno champagne di grande marca, ma della qualità del greggio libico. Il ‘Light sweet’ è un petrolio considerato ‘dolcè perchè contiene meno dello 0,5% di zolfo e piccole quantità di solfuro di idrogeno e anidride carbonica. L’alta qualità lo rende quindi molto pregiato, ed è comunemente utilizzato per essere trasformato in benzina ed ha una forte domanda, in particolare nei paesi industrializzati. Ebbene, il petrolio libico è un greggio dolce, senza zolfo, di ottima qualità, con ottima resa per i carburanti tanto che per produrlo sono state tarate in modo particolare le raffinerie. La Libia, alla stregua di Nigeria, Algeria, Kazakhstan e UK-Brent, produce un petrolio di ottima qualità povero di zolfo (‘Light, sweet crudè), che permette in altri termini di ottenere più benzina e gasolio per unità raffinata. In Europa le leggi sui carburanti sono molto stringenti, e le raffinerie oramai obsolete. In più investire in raffinerie non è conveniente. Così, i Paesi europei da sempre preferiscono cercare sul mercato il petrolio a basso contenuto di zolfo, che diventa sempre più difficile da trovare. Senza lo ‘Light sweet’ a un costo contenuto, i profitti di raffinazione europei scendono a zero. Anche se la Libia possiede solo il 2% delle riserve mondiali, può vantare ben il 10% del rimanente ‘Light sweet’ presente al mondo. (Sec/Col/Adnkronos)

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