éer quanti hanno creduto davvero che la guerra fosse per “portarela democrazia in Libia” è consigliabile la lettura di questo lancio d’agenzia pubblicato oggi. Ora che la guerra volge al termine, in fondo, si può anche parlare chiaro.
Petrolio e infrastrutture: sono principalmente questi i business per i Paesi occidentali in Libia e, con l’avvicinarsi della fine del regime di Gheddafi, si ripropone la corsa alle commesse. L’Italia è in prima fila per le future forniture di petrolio e per le grandi opportunità di investimento sia nel settore sanitario che in quello edilizio«, ha detto oggi in un’intervista il ministro degli Esteri, Franco Frattini. E in effetti il nostro Paese vanta una presenza di lunga data in proposito, anche attraverso intrecci azionari con società libiche. Mentre infatti gli investimenti libici in Italia targati Gheddafi spaziavano dalla moda alle telecomunicazioni, dall’auto al calcio, per non parlare delle banche (Unicredit per tutte), quelli italiani nel Paese nordafricano sono sempre stati concentrati nel settore energetico e nell’edilizia. – ENERGIA: Eni è partner storico del Paese ricco di greggio e gas e Lafico è entrata per un certo periodo nel cane a sei zampe con una quota che si aggirava intorno allo 0,15%. E i tecnici della Saipem sono al lavoro da tempo per rimettere in funzione gli impianti del Paese nordafricano – EDILIZIA: C’è quasi tutto il mondo delle costruzioni ‘made in Italy’, a iniziare da Impregilo, in gara per la costruzione dell’autostrada costiera libica prevista dal trattato di amicizia e cooperazione firmato nel 2008 da Italia e Libia. I lavori che sono stati riservati a imprese italiane valgono circa tre miliardi di dollari e riguardano l’intero tracciato, i 1.700 chilometri della ‘superstradà Rass Ajdir-Imsaad. (Ansa)
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Tutte le incognite suscitate da una “strategia” di corto respiro e “stimolata” soltanto dal controllo diretto delle fonti energetiche, che costringe oggi i paesi più sviluppati a “eliminare” la mediazione fin qui accettata di una “proprietà formale” (con relative royalties) in capo a rais locali e ad imporre ovunque ci sia una risorsa energetica importante una struttura di controllo semplificata e senza pretese “statuali”. In questo primo bilancio de Il Sole 24 Ore vengono (solo ora) allo scoperto.
E se Tripoli finisse come Baghdad? Tutte le incognite del dopo-Gheddafi
di Roberto Bongiorni
E se Tripoli cadesse nei prossimi i giorni – ipotesi peraltro non scontata – cosa accadrà all’ex regno del colonnello Muammar Gheddafi? Una volta venuto meno il collante che teneva unita l’anarchica armata degli insorti – ovvero la guerra contro il dittatore – i ribelli saranno davvero in grado di restare uniti, mantenere la sicurezza, proteggere le infrastrutture e ricostruire la nuova Libia?
Davanti all’inaspettata avanzata degli insorti, ormai alle porte della capitale Tripoli, le cancellerie dei paesi occidentali e i vertici della Nato sono assillati da queste domande. Ciò che tutti vogliono evitare è che Tripoli si trasformi in un’altra Baghdad. Sono ancora freschi i ricordi di cosa accadde poco dopo l’aprile del 2003, quando i marines abbatterono la statua di Saddam Hussein. Complice l’inopportuna decisione di sciogliere l’esercito iracheno (500mila unità di cui molti quadri sunniti) scoppiò il caos; anni di guerra civile, un’insurrezione armata alleata con i miliziani di al-Qaeda, atroci violenze interconfessionali tra sciiti e sunniti. Centinaia di migliaia di vittime. La produzione petrolifera che ha arrancato per quasi 10 anni.
La Libia non è l’Iraq. Anche perché questa volta saranno dei libici – se ci riusciranno – a conquistare la capitale e scalzare l’uomo che è restato al potere con il pugno di ferro per oltre 40 anni. Eppure il dopo Gheddafi resta un’incognita piena di insidie.
Il timore di rappresaglie contro chi è rimasto fedele al Rais, le rese dei conti tra clan rivali, una situazione di anarchia in cui si fa strada il crimine organizzato, sono dei rischi reali. Come lo è un pericoloso vuoto di potere.
La Libia è un paese dove il clan o la tribù di appartenenza conta, e molto. Le tribù sono in pratica la sola istituzione sopravvissuta durante i 40 anni di regime. Gheddafi era stato particolarmente abile nell’applicare la strategia del divide et impera con i clan rivali.
Al di là di vecchi rancori mai sopiti, la ripartizione dell’enorme ricchezza energetica – la Libia vanta le prime riserve petrolifere dell’Africa – potrebbe innescare lotte intestine. Gli 1,6 milioni di barili al giorno di greggio estratti prima della rivolta, fruttavano al regime. circa 35-40 miliardi di dollari l’anno.
Occorrerà mettere d’accordo la tribù Warfalla, la più grande – un sesto della popolazione – suddivisa in sei grandi clan e invisa a Gheddafi per il tentato colpo di stato del 1993, con la seconda tribù, i Magariha, alleata del regime in alcune delle più sanguinose repressioni. Sarà opportuno trovare un’equa ripartizione dei poteri, arginare le ambizioni degli Zuwaya la più importante tribù della Cirenaica. E accontentare anche le tribù minori.
Un compito molto difficile, che spesso nei paesi arabi un carismatico “uomo forte”, un simbolo, in parte è stato capace di realizzare. All’ultimo gli insorti potrebbero aver trovato il loro leader in Abdessalam Jalloud, amico d’infanzia e per anni stretto collaboratore di Muammar Gheddafi. Lui , premier per due volte ed ex ministro del petrolio, di fatto agli arresti domiciliari dal 1993, è fuggito da Tripoli ed è passato dalla parte dei rivoltosi.
Una candidatura tutt’altro che scontata. Gli insorti non sono così uniti come vogliono far apparire all’esterno. Anche sul loro versante, la macchina della propaganda ha cercato di enfatizzare i successi, nascondendo le divisioni. Come le faide interne al Consiglio nazionale di Transizione (Cnt), l’organo rappresentativo basato a Bengasi, capitale della Cirenaica. L’annuncio del suo scioglimento, alcune settimane fa, seguito da un supposto rimpasto – Mahmoud Jibril resterebbe “primo ministro”, con l’incarico di formare un nuovo esecutivo di 14 ministri, è finora rimasta una manovra confusa di cui si sa ancora poco.
Disorientato dal precipitare degli eventi, il Cnt ha messo a punto nei giorni scorsi una nuova road map per il periodo di transizione successivo alla caduta del regime. Si tratta di una «dichiarazione costituzionale» che prevede di rimettere il potere a un’Assemblea nazionale entro otto mesi e di adottare una nuova costituzione. Ma occorrerà disciplina. Certo non il punto forte dell’eterogenea compagine dei ribelli.
Ecco perché il dopo Gheddafi fa paura. Perché una caduta imminente del regime rischia di trasformarsi – come ha sottolineato un diplomatico occidentale da Bengasi – in un “catastrofico successo”. Gli Stati Uniti sono convinti che Gheddafi non fuggirà. Se sceglierà davvero di combattere fino alla fine, la conquista di Tripoli potrebbe rivelarsi molto sanguinosa. Eppure potrebbe offrire tempo prezioso per trovare un accordo tra fazioni rivali ed alleati del regime. Ed evitare uno scenario ancora più sanguinoso: un Iraq africano.
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