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Libia scontata


Secondo la Nato il capitolo finale della Libia di Gheddafi si sta scrivendo ora. Lo scenario è molto simile a quello dei capitoli finali di Jugoslavia/Milosevic, Afghanistan/mullah Omar, Iraq/Saddam Hussein e «Guerra al terrore»/bin Laden: eliminare il Cattivo. Nei prossimi capitoli di questa neo-crociata saranno colpiti anche i Cristiani ortodossi, come nelle crociate del periodo 1095-1291.

Anche se non sappiamo esattamente come interpretare il capitolo finale di questa storia, l’esperienza passata serve da guida. Dopo la distruzione dei simboli di Gheddafi ci sarà una cerimonia celebrativa della vittoria della Nato. Tutti sapranno chi avrà rovesciato il rais. Ci sarà una portaerei con Sarkozy, Cameron, Berlusconi, Obama e vari bombardieri in capo che dichiareranno «missione compiuta» e si metteranno in fila per i contratti petroliferi promessi? Difficilmente. La cerimonia invece sarà più in stile europeo, come il meeting che si è tenuto a Parigi il 2 settembre in cui i maggiori rappresentanti di più di 60 paesi hanno promesso di scongelare i beni libici congelati in favore del Consiglio nazionale di transizione. Altri incontri, come quello di Petersburg I per l’Afghanistan, redigeranno una bozza di costituzione e fisseranno le date per le elezioni libere. Poi, se Gheddafi sarà catturato vivo, per lui scatterà la routine occidentale della Corte penale internazionale.
Prima di questo, comunque, «lealisti» travestiti da civili bruceranno in massa le uniformi libiche, e si prepareranno così per i cambiamenti di lungo periodo. Poi, dopo un mese, un anno o magari dieci anni, cominceranno ad apparire le bombe sul ciglio della strada, insieme ai sabotaggi di oleodotti e raffinerie. Il clan di Bengasi e i suoi aderenti non saranno capaci di contrastare il clan di Sirte e i suoi aderenti. Comincerà la deriva verso l’occupazione Nato con forze di terra, ovviamente «per addestrare il nuovo esercito libico». In breve, il solito.
Facciamo emergere due punti basilari dalla nebbia della storia -nebbia, dovremmo notare, che esiste soltanto per chi ha una visione ridotta.
Primo. Jugoslavia, Afghanistan, Iraq e Libia sono concetti artificiali creati dagli architetti globali ossessionati dall’esigenza di colorare gli «stati-nazione» sulle mappe del mondo. Sono convinti che i cittadini di stati di un colore solo costituiscano una «nazione». Quando capiranno che in realtà queste nazioni non esistono e che nelle culture altamente eterogenee fondate sul «noi» il legame di sangue dei clan- delle tribù- delle etnicità- delle razze è molto più profondo rispetto all’acqua della ideologia partitica nelle culture omogenee fondate sull’«io»? Quando vedranno che il sistema «una testa/una persona un voto» ed elezioni libere ed eque funzionano bene in culture omogenee fondate sull’«io» come Norvegia, Germania, Italia e Giappone, ma non in culture eterogenee fondate sul «noi», dove le persone voteranno esclusivamente per il proprio clan-tribù-etnicità-razza? Se si vuole mantenere insieme uno stato artificiale bisogna pagarne il prezzo: una pesante repressione da parte di un dittatore locale o un occupante straniero per contenere le forze centrifughe.
Secondo punto: ciò che è imposto con la violenza tende a portare altra violenza e repressione, non democrazia. Qualcuno obietterà: non è stata imposta con successo la democrazia in Germania, Italia e Giappone dopo la seconda guerra mondiale? Certo, ma erano coinvolti alcuni importanti fattori: tutti e tre i paesi erano omogenei e due erano culture fondate sull’«io». Tutti e tre avevano una tradizione di democrazia elettorale e di governo della maggioranza. E in tutti e tre dittatura e militarismo non erano emersi per tenere separati diversi gruppi etnici ma per altre ragioni. In questi casi la guerra ha solo ristabilito ciò che c’era prima.
È una causa persa, dunque, questa guerra contro Gheddafi? Se l’obiettivo è una «democrazia laica stabile», la risposta è sì: la guerra farà solo mobilitare gli islamisti, i clan e le tribù, e scatenerà violenze e battibecchi senza fine.
Se invece lo scopo è creare una banca centrale privata, non statale- obiettivo già raggiunto dal clan di Bengasi- allora non si può parlare di causa persa. E se lo scopo è liquidare una Banca africana d’investimenti a Sirte, in Libia, un Fondo monetario africano in Nigeria, una Federazione africana e una moneta africana in dinari d’oro, allora ci sono ragioni per festeggiare. È per questo che l’amministrazione Obama ha già confiscato 30 miliardi di dollari di depositi libici negli Usa. E se lo scopo è prevenire il fatto che la Libia emerga come il primo paese africano che soddisfa con successo gli Obiettivi di sviluppo del Millennio, allora possono cominciare i fuochi d’artificio.
Nel frattempo la primavera araba è maturata e si è estesa anche in Israele, dove si sono verificate proteste di massa contro la disuguaglianza. I razzi e gli attacchi dalla striscia di Gaza, di fatto sotto occupazione, sono deplorevoli ma prevedibili. Adesso è arrivato anche il raccolto della scorsa estate: l’Egitto è cambiato e 30 anni di tregua con Israele sono evaporati nel nulla. Ci sarà dell’altro.
L’attuale impero fondato su Usa e Israele sarà rimpiazzato da un altro? Come ho scritto nel 2009 in «La caduta dell’impero americano», gli europei e la Nato saranno i probabili successori. Resteranno finché gli Usa non riemergeranno e riprenderanno la loro posizione di sceriffo del mondo che cattura il Cattivo di turno, vivo o morto? Probabilmente no. È probabile che questo quarto flagello imperialista sul Medio oriente e il Nordafrica (dopo l’Impero ottomano, la dominazione dell’Occidente, Italia-Inghilterra-Francia, e ora il dominio Usa-Israele) sia in realtà breve. Gli europei adesso stanno dicendo «La Libia non è l’Iraq», proprio come dicevano «L’Iraq non è il Vietnam». Delle differenze effettivamente ci sono, anche se le somiglianze sono predominanti.
Per concludere, cosa potrebbe venire dopo? Forse una Libia decentralizzata, che promuova un’unità africana attenta alle sue 500 entità substatali invece che alle 54 statali, governata dalla regola del consensus tra la maggioranza delle parti invece che dal modello europeo del «chi vince prende tutto». Questa sarebbe una soluzione decisamente migliore.

Johan Galtung, Rettore della Università della Pace Trascend – Copyright Ips-il manifesto

(Traduzione di Cristina Cecchi)

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