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Così la Palestina costruisce la pace


INVIATO A RAMALLAH

Ad avere valore ieri sera non erano tanto le parole pronunciate da Abu Mazen, presidente con una credibilità incerta anche dopo il suo discorso all’Onu. E neppure gli applausi che ha ricevuto al Palazzo di Vetro l’annuncio della presentazione ufficiale al segretario generale Ban Ki moon della domanda di adesione dello stato di Palestina alle Nazioni unite. Irrilevanti apparivano ieri anche le lotte di potere tra Fatah e Hamas che da troppo tempo dilaniano il popolo palestinese. Ciò che contava più di ogni altra cosa ieri sera erano le decine di migliaia di cittadini arabi, dal Cairo a Beirut, che assieme a tutti i palestinesi reclamavano la realizzazione delle aspirazione di un popolo al quale è stato tolto tutto e che in gran parte vive in campi profughi. Ieri erano di fronte l’America che nega o regala diritti sulla base dei suoi interessi e disegni strategici e milioni di persone che al contrario affermano l’uguaglianza di tutti i popoli. Forse Barack Obama, grazie anche alla sua alleanza con le potenti lobby che si spartiscono il controllo della politica americana, vincerà ancora le presidenziali e otterrà un nuovo mandato. Ma sbarrando la strada ai palestinesi – sotto occupazione da 44 anni e da venti anni impegnati in un negoziato inutile ed estenuante – il presidente Usa ha perduto per sempre il rispetto dei tanti che, non solo in Medio Oriente, avevano creduto alle sue promesse. «Quando i discorsi di oggi finiranno, dobbiamo tutti riconoscere che l’unica via per creare uno stato è attraverso negoziati diretti, non scorciatoie», ha scritto via Twitter l’ambasciatrice Usa all’Onu, Susan Rice, commentando a caldo il discorso di Abu Mazen.
Il leader palestinese non ha mai negato, rivolgendosi ieri all’Assemblea dell’Onu, la sua volontà di tornare a negoziare un accordo con Israele. Ma è stato categorico nel dire che il suo popolo non può più vivere sotto occupazione e continuare a negoziare all’infinito. Ha attaccato frontalmente la colonizzazione israeliana dei territori palestinesi. «La nostra azione non è un’azione unilaterale» ha precisato «noi non miriamo a isolare o a delegittimare Israele», ma a «delegittimare la colonizzazione». «È venuta l’ora dell’indipendenza» ha detto il presidente dell’Olp mentre milioni di palestinesi lo seguivano sugli schermi televisivi nelle piazze di tante città, tra canti e danze. «Questo è il momento della verità», ha proseguito, «il mondo continuerà a permettere a Israele di mantenere l’occupazione per sempre e di restare uno Stato al di sopra della legge…o capirà che c’è uno Stato mancante che deve essere creato immediatamente?». «È venuta l’ora per il mio coraggioso e orgoglioso popolo, dopo decenni di occupazione, di vivere come altri popoli della terra, liberi in un paese sovrano e indipendente». In quel momento a Nablus, Betlemme, Ramallah e altre città decine di migliaia di palestinesi lo incitavano ad andare avanti, a non avere paura. Altrettanti nei campi profughi sparsi nel mondo arabo lo esortavano a non dimenticare il diritto al ritorno, sancito dalla risoluzione dell’Onu. E l’applauso si è trasformato in ovazione quando Abu Mazen ha citato il poeta Mahmoud Darwish: «Noi abbiamo uno scopo solo: esistere ed esisteremo». Il leader dell’Olp ha fatto più di un riferimento al vento della «primavera araba» che da mesi attraversa la regione e che ha visto diversi popoli liberarsi di dittatori al potere da decenni. Per i palestinesi la primavera araba è la liberazione dalla dittatura dell’occupazione. Abu Mazen ha terminato l’intervento con un appello ai rappresentanti dei vari paesi: «Vi chiedo di accelerare l’iter della richiesta al Consiglio di sicurezza». Ha perciò smentito la richiesta di adesione solo di uno «Stato non membro» della quale si era parlato nelle ultime ore. I palestinesi lanciano la palla nel campo americano e sfidano Obama ad usare il veto a sostegno di Israele.
Pochi minuti dopo il discorso di Abu Mazen, la parola all’Onu è passata al premier israeliano Benyamin Netanyahu che, nel frattempo, aveva già respinto «con irritazione» la proposta avanzata giovedì dal presidente francese Sarkozy di garantire lo status di «Stato non membro» alla Palestina. Peraltro non era in aula quando ha parlato Abu Mazen. All’inizio Netanyahu ha usato toni in apparenza morbidi. Israele, ha detto, «tende la mano al popolo palestinese con il quale cerchiamo pace giusta e duratura». Dopo poche frasi ha attaccato duro. «Non sono venuto a prendere applausi – ha affermato il primo ministro – sono venuto a dire la verità e la verità è che Israele vuole la pace con i palestinesi ma i palestinesi vogliono uno Stato senza la pace…Non dovete permettere che accada», ha detto guardando la platea. Poi si è rivolto al presidente palestinese Abu Mazen per invitarlo a un incontro «oggi stesso» per cominciare un negoziato diretto. «Siamo nella stessa città, nello stesso palazzo. Se vogliamo davvero la pace chi ci ferma? Parliamo apertamente e onestamente. Ascoltiamoci», ha sottolineato il premier israeliano tralasciando il «dettaglio» della sua ferma intenzione di proseguire la colonizzazione dei Territori occupati di cui i palestinesi chiedono lo stop completo per riprendere le trattative dirette.
E mentre Netanyahu parlava, le zone dove vivono i coloni israeliani si dimostravano ad altissima tensione. Nel villaggio palestinese di Kusra (Nablus) i soldati israeliani hanno ucciso un giovane, Issa Kamal, dopo l’ennesimo blitz, camuffato da gita, di un gruppo di coloni in quella zona. Qualche ora prima scontri erano avvenuti al posto di blocco di Qalandiya, a Gerusalemme Est, a Bilin, Naalin e Nabi Saleh. Un bambino palestinese di otto anni, Taleb Jaber, è stato travolto e ferito gravemente da un’automobile israeliana nei pressi della colonia ebraica di Kiryat Arba (Hebron). Non è stato provocato dai palestinesi invece l’incidente automobilistico in cui, nelle stesse ore, hanno trovato la morte un colono e suo figlio, sempre nella zona di Hebron.
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Dispersa dalla polizia protesta contro Israele

La polizia giordana è massicciamente intervenuta in assetto antisommossa per fermare una manifestazione di protesta organizzata per chiedere la cacciata dell’ambasciatore israeliano da Amman. Secondo quanto riferiscono molti media giordani, alcune centinaia di persone all’uscita dalla preghiera comunitaria del venerdì islamico dalla moschea Kaluti della capitale giordana, a pochi metri dall’ambasciata d’Israele, hanno inscenato improvvisamente una manifestazione, scadendo duri slogan contro Tel Aviv. Mentre i manifestanti si dirigevano numerosi verso la sede diplomatica dello stato ebraico è intervenuta la polizia per disperdere il corteo. Nei giorni scorsi il personale diplomatico israeliano in Giordania è stato rimpatriato proprio nelle ore precedenti un’altra manifestazione di protesta contro l’occupazione israeliana dei Territori palestinesi, dopo che al Cairo un assalto alla rappresentanza dello Stato ebraico nella capitale egiziana aveva messo in fuga il personale diplomatico.
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L’Anp si gioca l’ultima carta

Nicola Perugini*
Pochi giorni fa il presidente Abu Mazen, come capo dell’Olp (così indicavano beffardamente i sottotitoli della televisione palestinese e dei media internazionali) ha annunciato ciò che già tutti sapevano. «Andremo all’Onu per chiedere il pieno riconoscimento dello Stato di Palestina», passando quindi sia per l’Assemblea Generale che per il Consiglio di Sicurezza: nessun timore di un veto americano (anzi, alcuni sostengono: «il veto americano svelerà la vera natura dell’amministrazione Obama», della serie la svelatura di ciò che è quanto mai poco velato); due terzi del mondo sono pronti a riconoscerci; abbiamo qualche «problemino» interno (Gaza e Cisgiordania divisi politicamente e territorialmente, per non parlare della frammentazione tra palestinesi che vivono in Israele e palestinesi dei territori occupati, e tra questi due e i palestinesi rifugiati o all’estero) ma quella dell’andata all’Onu è solo l’inizio di una più ampia strategia (che il presidente si è ben guardato dallo specificare).
Checché ne dicano molti, l’andata all’Onu presenta la sua chiarezza sin dal primo momento in cui il progetto è stato reso pubblico e non necessita di istruzioni per l’uso. I negoziati che l’Anp ha alimentato abbondantemente – con tanto di piani di concessioni e «svendite» note a tutti i palestinesi e poi manifestatesi in forma cartacea nei dimenticati «Palestine Papers» – non erano più una strada percorribile, nel contesto delle rivolte arabe. Di fronte al supporto che molti palestinesi hanno mostrato nei confronti delle insurrezioni arabe, personaggi «svergognati» dai Palestine Papers – implicati in svendite dei brandelli di Palestina e in torbidi supporti alle torture degli apparati di sicurezza dell’Anp, come Saeb Erekat, capo negoziatore dell’Olp – sono risaliti in sella ed hanno ripreso le redini del destino nazionale. Non dimentichiamoci che l’Anp e alcuni membri dell’Olp si sono posizionati molto in ritardo sulle rivolte arabe, e che lo stesso Abu Mazen inizialmente aveva reiterato il suo supporto a Mubarak.
La situazione attuale, molto schematicamente, è quella, da un lato, di un’Anp che si gioca l’ultima carta prima di finire nel tritacarne delle insurrezioni e, dall’altro lato, una critica dell’andata all’Onu che pone in discussione lo stato della rappresentanza tra i palestinesi tout court. Da un lato, il presidente Abu Mazen e il suo entourage: un presidente ancora in piedi grazie ad un’auto proclamazione «di emergenza» oltre i termini costituzionali e che nel suo discorso farsesco ha esclamato, con un sorriso tanto ironico quanto esplicativo (la goffaggine del potere è anche il suo regime di verità, talvolta): «in Palestina abbiamo tutto, democrazia (senza elezioni da anni e con un Primo Ministro rappresentante di un partito che alle ultime elezioni ha collezionato poche molliche percentuali), libertà di espressione… per questo il nostro popolo non scende in piazza cantando “il popolo vuole”… cosa vuole il nostro popolo?». Dall’altro un’opposizione che, in termini di realpolitik, ha espresso come argine più intelligente alla deriva autoritaria dell’Anp lo slogan «il popolo vuole un nuovo Consiglio Nazionale», l’organo che dovrebbe eleggere un nuovo Consiglio Esecutivo dell’Olp, dopo un voto che dovrebbe coinvolgere i palestinesi di tutti le latitudini, e non solo quelli dei Territori Occupati.
Il cuore di queste due posizioni è la nozione di rappresentanza. L’Anp si arroga un diritto di rappresentanza cosmopolita dei palestinesi che neanche l’Olp le ha mai riconosciuto. Chi chiede un Olp più rappresentativo chiede che un organo che non ha mai funzionato secondo principi di rappresentanza, ma esclusivamente secondo quello dell’incarnazione di una sacrosanta lotta di liberazione sullo scenario internazionale, di diventare magicamente rappresentativo.
I palestinesi sono tra due trappole infernali, anzi tre: la trappola di un’Onu che ha già abbondantemente legiferato su diritti mai applicati, come il diritto al ritorno; la trappola illusoria che il voto, nelle attuali condizioni di frammentazione territoriale e politica palestinese sia un toccasana. Queste due trappole sono sorrette da un’altra trappola infernale: l’illusione della sovranità nazionale. Questo sistema di trappole costituisce un orizzonte politico quanto mai limitato, ma anche la limitazione dell’orizzonte politico di una costituzione e di una manifestazione di un processo di soggettivazione anti-coloniale e de-coloniale. Esso disattiva la possibilità di un pensiero e un desiderio comune, in comune. Un desiderio di comprendere cosa accomuni indistintamente tutti i palestinesi – in sostanza l’esproprio del pensarsi in comune – e di che cosa costituisca l’orizzonte politico di un comune non coloniale, anti-strategico, soprattutto se per strategia si intende un’ormai svuotata prospettiva di sovranità nazionale.
* Docente di Antropologia Politica presso l’Honors College dell’Al Quds University di Gerusalemme
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da “il manifesto” del 24 settembre 2011

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